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LE OMBRE NEI PENSIERI


LE OMBRE NEI PENSIERI
Ieri son rimasto tutto il giorno inchiodato a un brano che non è neanche una canzone, è un tema musicale. Quello di Amici miei. Lì Carlo Rustichelli, che era un mago delle commozioni per immagini, come Riz Ortolani, Piero Piccioni, Ennio Morricone, Nino Rota, Stelvio Cipriani, tutti stregoni che facevano, volendo Tom Waits 30 anni prima di Tom Waits, disegnando scenari d'incubi tanto sottili da penetrare nelle fibre dell'anima, lì Rustichelli, dicevo, si è comportato proprio da carogna. Quel tema è semplicissimo, basta conoscere un po' i modi e andarci su e giù. Però non si può resistere, piombi in una malinconia vertiginosa, t'immagini come poteva (può) essere triste, cupa la Firenze un tempo medicea, in quei mezzi Settanta dove cinque disperati se ne fottevano del riflusso, delle ideologie, della crisi e tiravano a campare ammazzandosi di beffe. E dire che Monicelli di incazzatura politica era intriso, c'è morto, perfino. Suicida per il cancro, certo, però incazzato come un ventenne fino all'ultimo giorno. E a me non piacque quel gesto, il suicidio lo rispetto, lo comprendo benissimo ma quel volo a più di 90 anni dalla finestra di una clinica m'era parso troppo cinematografico, troppo sbattuto in faccia a tutti. Adesso non lo so mica se la penso ancora così. Però insomma Monicelli era tanto intelligente da lasciarla completamente fuori, la politica, da un film come quello. E più lo ascolti e più stai male e più torni a riascoltarlo quel tema maledetto. Perché ce l'hai dentro, s'è proprio avviluppato all'anima.
Io lo vidi appena uscito Amici miei, al mare, che avevo una decina d'anni e a mio padre piacque, ma forse più per istinto, per simpatia con gli attori, non aveva la cultura per contestualizzare mio padre, a mia madre per lo stesso motivo riuscì odiosa quella faccenda di cinque vecchi che facevano scherzi imbecilli, erano una famiglia di provinciali i miei, figli di provinciali, agricoli o sottoproletari, saliti nei primi anni Sessanta lei da Mantova lui da Fermo, che allora era considerato meridione sparato, nella metropoli ancora ottimista e qui incontratisi, frequentatisi fino a giuste ed illibate nozze e tutto per illudersi d'esser diventati classe media, piccola borghesia che forse non fummo mai. Ci provò mio padre, ne uscì distrutto. Non scali le classi sociali in questo Paese se vuoi restare pulito, se resti provinciale dentro, ti fanno passare la voglia, ti puniscono. Io per il film stavo con mia madre, non lo capivo, la gente rideva ma io sentivo che era atroce e ho sempre temuto l'atrocità, fin da piccolo, perché ce l'avevo dentro e lo sapevo.
Solo che non ne sapevo fare a meno, era un canto di sirena quella melanconia dei cinque vecchi che si consumavano anche per me, che parevano dare ali alla melanconia che mi consumava da sempre, ascoltando un filo d'erba crescere oppure disegnata sulla faccia del mio migliore amico che scoprivo teneramente inadeguato, un perdente, eravamo tutti perdenti. Quasi tutti. Non ne sapevo fare a meno di quelle cazzate che non capivo, di quello star male che mi consolava, di quel tema musicale di vertiginoso dolore e allora riuscii a trovare, ero un bambino bulimico di libri, la sceneggiatura originale che poi era un romanzo fatto e finito e la lessi per tutta l'estate, alla fine la sapevo a memoria. E adesso non la trovo più ed ogni estate la cerco invano nelle bancarelle dei libri usati, che poi a portarli a casa puzzano sempre di muffa e quando li rileggi non ti piacciono più come allora perché son passati secoli e tu sei cambiato come una pianta che ad ogni stagione si rinnova. E crescendo, ogni volta avrei rivisto il film divertendomi ad anticipare le battute. Ma ogni volta penetrava in me un po' più di quello strazio. Finché ne sono rimasto allagato.
Adesso ormai mi pare di capire tutto, brutto segno, di ogni singola sequenza, di ogni dialogo e di ciascuna nota di quel tema crudele. E ieri per tutto il giorno, come un'ossessione, lo sentivo, e lo rimettevo da capo, e una stanchezza mi coglieva, un torpore, una dolcezza, forse morire è proprio così, se solo si può avere l'agio di farlo. Io rivedevo la mia vita, gli stenti di mio padre, poi quelli miei, la sua disperata allegria che bastava un'altra illusione a rimettere in moto, che mi ha trasmesso tale e quale, autolesionistica ed inguaribile, e sentivo sotto quella fisarmonica da star male, da baraccone o da stazione, quella chitarra arpeggiata che sapeva di lampioni nella notte fiorentina, e non avevo più voglia di niente, non di vivere, non di morire. Mi sentivo una pianta che seccava e mi mancavano gli amici. Tutti lontani, tutti perduti. Pensavo a cosa ero diventato, al mio coraggio perduto e mi spaventava ritrovarmi così. Ho l'età del conte Mascetti, ed ho paura.
Io non lo so. Non lo so cosa ho dentro, di cosa sono nato, ma non ricordo un giorno senza questa consapevolezza, queste ombre nei pensieri. Questo sapere che sarei finito così. Questo sorridere scheggiato, anche ridere, anche forte, perfino sguaiato, ma sempre con un retrogusto di angoscia. Io non ci riuscivo proprio ad essere spensierato, le ombre pesavano troppo. Non ci sono mai riuscito.

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