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MISTERI DOLOROSI - estratto 6

MISTERI DOLOROSI - estratto 6

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Ha suscitato un certo fastidio (nel caso migliore) la recente uscita di Erri de Luca, ex capo del servizio d'ordine di Lotta Continua, a proposito degli anni di piombo, che a suo dire "Saranno stati di piombo per gli idraulici, perché ancora non c' era il Pvc". Forse per lui. Per molti invece di piombo furono, e di piombo rimasero, fino alla fine dei loro giorni. Propongo di seguito un estratto dal volume "Misteri Dolorosi", in cui si riepiloga la tragica vicenda di un martire di quegli anni, l'architetto Sergio Lenci. Scusandomi per il mio ostinato stare "dalla parte delle vittime", cosa che qualcuno mi ha di recente rimproverato, con accenti di disprezzo. 
 
(…) Uccidere è brutto. Ma sopravvivere può esserlo di più. Come racconta nel suo “Colpo alla nuca” l'architetto Sergio Lenci, “semigiustiziato” il 2 maggio del 1980 da un commando di Prima Linea. Un diario afasico, fatto di parole scritte perché quella pallottola, irrimediabilmente saldata alle ossa del cranio, aveva tra gli altri guasti lesionato pure le corde vocali; e anche quelle del ricordo, che stringono, soffocano ma nessuno, constata la vittima, a un certo punto vuole sentirle più vibrare. Nessuno vuole sentire il racconto dell'esecuzione, della penosa degenza, della straziante convalescenza, dell'impossibile ritorno alla normalità, e poi dell'allucinante processo, dell'ambiguità poderosa di una macchina statale che vuole solo ridurre al silenzio, del ribaltamento della verità ad opera del potere politico-mediatico, dei mille mali che non passano, uno su tutti: perché a me? Lenci non troverà risposta, malgrado un fitto carteggio con i suoi aguzzini: ed è questa latitanza di una ragione, una ragione seria, comprensibile, salda, a ferire di più (...)
Con stile garbato, indifeso, che tradisce una mitezza ancor più straziante alla luce delle ingiustizie subite, dalla violenza alla sistematica negazione della propria dignità di vittima, Lenci racconta le ambiguità, le connivenze, le sottovalutazioni dell'ambiente universitario e politico verso i contestatori, come quelli degli “Uccelli”, gruppo dadaista, che pretendono un esame di gruppo cioè la lettura di un comunicato rivoluzionario da premiare col 30 generalizzato (da cui si deduce il progressivo sfascio di arti, mestieri e professioni in Italia), pronti ad aggredire, rovinare, calunniare, offendere chiunque si opponga alla loro pseudogoliardia opportunistica. Così tenuti in conto dai dotti, e magari un po' vigliacchi, monumenti di miopia. È la “cultura del terrorismo” denunciata da Lenci nell'introduzione al suo testo. Una cultura senza cultura, tutta eretta su un conformismo ammantato di anticonformismo. Proprio questa ammissione cruciale, “sbagliavamo tutto”, i carnefici la tengono per sé; e questa attesa vana è la fitta più dolorosa per chi ha avuto il torto di sopravvivere.

Non si è mai adeguatamente precisato come questa egemonia violenta, condivisa tra studenti, docenti, agitatori esterni alle scuole e alle università, abbia impedito il consolidarsi di un pensiero non fazioso, alieno ai fondamentalismi ideologici. Oggi la cultura liberale, per dire tollerante, da tutti millantata, si esaurisce a un reperto storico, chi si ostina a difenderla è malsopportato, per usare le parole di Piero Ostellino, “come un cane in chiesa”. Specie nelle scuole, l'unico indirizzo democratico sembra consistere nella contestazione estetica, nell'antagonismo radicale, nelle sollevazioni più o meno animate, “contro” a prescindere, senza una minima elaborazione delle questioni in discussione, nella totale assenza di prospettive ricostruttive; laddove negli atenei resiste un incrostato baronato anche ideologico per cui – è solo un esempio – all'Università di Cosenza si assiste (nel 1975), ad un “intenso legame e un senso di solidarietà tra docenti mirante principalmente alla conquista in seno all'Ateneo, di avvalersi delle strutture universitarie per l'avvio del processo rivoluzionario. È sintomatico di questo accordo il modo in cui viene espletato il concorso per la cattedra di “Fisica 1” e “Fisica 2”, i cui presidenti delle rispettive Commissioni di esame furono Franco Piperno e Renzo Alzetta [esponenti dei spicco dell'Autonomia Operaia], i quali, a loro volta, erano candidati negli stessi concorsi, per cui la commissione presieduta da Piperno nominò vincitore Alzetta, e quella presieduta da quest'ultimo nominò vincitore Piperno”. La vicenda, poi oggetto di una serie di ricorsi ed impugnazioni, è riportata nella prefazione di Carlo Fumian al volume di Angelo Ventura “Per una storia del terrorismo italiano” (Donzelli, 2010). trentacinque anni dopo questi fatti, Piperno è ancora titolare della stessa cattedra nella stessa università.
Per dare un'idea del tasso di ambiguità mescolato a violenza nel periodo centrale degli anni del furore, si può scorrere uno stralcio dell'intervista rilasciata a Paolo Mieli da Lucio Colletti, pubblicata nel supplemento di “Panorama” del 7 febbraio 1988, e ripresa nella introduzione di Ventura al saggio appena citato: “Io tenevo – racconta Colletti – i miei corsi di sera e cominciai a ricevere delle minacce; alcuni professori mi confidarono che, sotto forma di sottoscrizione, pagavano una tangente a un collettivo per essere lasciati in pace; difesi Rosario Romeo che solo perché non s'era piegato veniva accusato di essere un fascista e divenni un suo amico: assieme a lui andai a parlare con un ministro dell'Interno democristiano [Cossiga], il quale ci rivelò che lui assicurava impunità al movimento perché, disse testualmente, “è l'unico che è in grado di portare in piazza decine di persone contro il Pci”. Restammo allibiti”. Di promuovere una cultura giovanile, universitaria, aperta e tollerante non importava proprio a nessuno.

E se la genesi del partito armato, degli opposti estremismi non può essere fatta risalire né ad un esclusivo disegno calato dall'alto, né da un improbabile spontaneismo esclusivo, ma appare sempre più come il combinato disposto di forze cospiranti e contrapposte, interne ed esterne, endogene e invasive, non ha parte secondaria nel crogiolo dell'antagonismo sistematico l'affermarsi proprio di un pensiero semplicizzante, superficiale, sloganistico, con pretese di scienza, approssimativo ma terribilmente efficace, questo sì calato dall'alto, a beneficio di masse da catechizzare al culto mistico della violenza. L'analisi si alimenta di distorsioni, di interpretazioni arbitrarie, di falsi storici (...) È un mito la lettura di questo processo come indotto da una situazione di stasi sociale; è proprio l'opposto, è l'insidia di una stagione di conquiste nel segno del riformismo a indurre i teorici dello scontro ad un definitivo e urgente salto di qualità.
Così, un irrazionalista del tipo fascista come Toni Negri potrà dire “il nemico va distrutto, è solo la pratica comunista che può distruggerlo”, e lo Stato non lo cancella, non usa contro di lui la “scopa di Dio”, questo borghese che predica l'odio per i borghesi, questo funzionario dello Stato che teorizza la completa eliminazione di ogni burocrazia statale, ancora 40 anni dopo, a dispetto delle sue condanne, della sconfessione delle sue tesi, dello sbugiardamento ad opera della Storia, resta al centro di se stesso, può continuare a reiterare la sua ossessiva mobilitazione oggi del movimento noglobal come ieri delle masse proletarie (ma senza dimenticare di riscuotere una pensione da parlamentare). La distruzione dell'avversario scolpita da Negri si ritroverà intatta nelle metodiche noglobal, naturalmente aggiornata ai tempi e agli strumenti che i tempi consentono. Ma resta identico il livore abissale, la totale mancanza di scrupoli e persino di dignità nella tensione a “distruggere l'avversario” tramite gogne su internet o comunque mediatiche, nella pratica dell'anonimato strategico, nelle devastazioni di piazza, nelle tecniche di guerriglia urbana riscoperte dopo anni di incubazione, che, per furore e organizzazione, finiscono per riportare ad anni che si pensavano superati, a tragici lasciti di generazioni eversive precedenti.
Chi non crede ad una genuinità rivoluzionaria di Negri è Mino Pecorelli, che gli dedica uno dei suoi ambigui e sulfurei passaggi su “Op” del 16 settembre 1975, con una sibillina allusione all'economista britannico J.M. Keynes: in un profluvio di virgolette e allegorie, Negri è sostanzialmente accusato di fare il gioco dello Stato, rafforzandolo mentre strumentalizza l'estrema sinistra eversiva e mette fuori gioco la sinistra democratica e riformista, egemonizzata dai comunisti. Come a dire, una raffinata strategia da Servizi segreti.
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Negri, oggi, continua a predicare. Come lui, l'ex sodale Franco Piperno, inamovibile titolare di una cattedra a Cosenza, il quale, in occasione del decennale dell'attentato delle Torri Gemelle, torna a sfoderare la sua prosa migliore: “Evento di sublime bellezza” ad opera di “un pugno di audaci intellettuali” (nessuna reazione dai suoi studenti, forse impegnati in altre forme di protesta).
Sergio Lenci è morto nel 2001, dopo ventun anni di calvario. La via che il Comune di Roma gli ha dedicato nel 2007 non riscatta un solo giorno del suo dolore, profondo e mite.

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