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CAPIRE


CAPIRE
Arrivano, sapete, quei momenti in cui ti senti più fragile. Ancora più fragile. E ti vedi dal di fuori, e ti fai quasi tenerezza, tu, proprio tu, con tutti i tuoi sogni sbagliati, con i sorrisi sprecati, con l'inutile orgoglio, con i conati infranti contro il muro di realtà. Tu, senza più nient'altro che te stesso. Allora cerchi di guardare avanti a te, fuori dalla finestra, assumendo una posa dignitosa. Io sto imparando ad accogliere questi momenti, sempre più frequenti, in modo diverso. Non li ho mai combattuti, però da ragazzo cercavo di superarli. Poi di accettarli. Adesso comincio quasi ad amarli, ad essere grato a certi vortici di coscienza: non debbo più dimostrare niente, più nascondere niente. Sto cominciando a sopportarmi, senza vergognarmene. Sto imparando la mia evanescenza, e a regalarla a chi mi legge, se mai la vorrà: forse può essere consolatoria. Ero domenica al Premio Tenco ospitato dal teatro Leopardi di San Ginesio, dove tra l'altro ho potuto conoscere uno degli artisti che ammiro di più, Giancarlo Onorato (che è stato non all'altezza delle mie aspettative, ma ben oltre). Si parlava, naturalmente, di Luigi Tenco, della sua opera. Io, lo confesso, non apprezzo il suo repertorio di protesta, l'ho sempre sentito un poco forzato, un doversi palesare per chi non era, l'obbligo di timbrare il cartellino dell'antagonismo pre-sessantottino. Lì per me viene fuori il Tenco esaltato e un po' infantile, capace d'ammazzarsi per un gesto eclatante. Al contrario, adoro senza riserve i brani intimi, che parlano di amore, di fallimento, e delle due cose insieme. “Vedrai, vedrai... non son finito, sai”. Quante volte l'ho sentita mormorare da mio padre a mia madre, questa frase. Quante volte mi son sentito ripeterla io stesso a mia moglie. Qui c'è il Tenco immenso, il primo ad avere parlato di sconfitta, ad avere cantato la disperazione di tutti, e per tutti noi. Qui c'è il Tenco che sarebbe poi stato capace di uccidersi non per una facile esaltazione, ma perché senza via d'uscita nel gorgo dell'insoddisfazione, figlia di troppo amore per la vita.
Oggi, in fondo, io, nel mio infimo, indegnamente, non faccio che riprendere quella lezione così alta, così sublime. Testimonio della mia tragica, tenera, inguaribile inadeguatezza. Della mia fragile fragilità di uomo fatto di carta e di vetro, che va in frantumi ad ogni soffio della vita. Vorrei farlo capire, vorrei sapere che chi mi legge, capisce. Capisce questo grumo che sto cercando coi miei poveri mezzi di trasmettere.
Tenco ci riusciva. Sono in un'arena davanti a 500 persone, presento una rassegna d'auto d'epoca e ci sono le vetture mitiche, ci sono le modelle che scendono dalle macchine con gli abiti del tempo, ci sono i filmati storici e le canzoni, che ho scelto personalmente. Scorrono Parlami d'amore Mariù, Maramao, Tuli-tulipan, Eri piccola, e dieci e cento altre. Ma quando si sente lo scarno, indimenticabile giro di “re” che abbiamo imparato a conoscere come sigla di Maigret, e parte la voce dolente di Tenco, “Un giorno dopo l'altro, il tempo se ne va, le strade sempre uguali, le stesse case”, piombo in un fermoimmagine, è come se tutto si cristalizzasse, le macchine, le modelle, il pubblico intorno a me. Tutti avvertiamo quel brivido del dolore. È un attimo, un attimo solo, ma m'investe e debbo forzarmi per uscirne. Se non mi scuoto io, tutto il pubblico resta chiuso nell'incantesimo.
E l'ho strimpellato, quell'attacco, un pomeriggio che ero con Paolo Benvegnù. Lui ha sorriso, e un silenzio complice, affettuoso, s'è impadronito di noi. Stavo mandando un messaggio, e lui capiva.

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