Col dannato lockdown tutti hanno scoperto che il telelavoro non è così piacevole. È distacco, illusione; è alienazione. Io già lo sapevo, è stata la mia vita per tutta la vita. L'avrò raccontato decine di volte: cominciai battendo i pezzi su una macchinetta per scrivere, regalo della prima comunione: finivo, strappavo il foglio dal rullo, lo chiudevo in una bustina carta da zucchero e inseguivo la corriera che doveva portarlo ad Ascoli: era il “fuori sacco”, che la redazione prendeva e componeva in pagina. Trent'anni dopo, posso spedire direttamente dal notebook, dal telefono, con l'email, con whatsapp, magari domani col pensiero, circondato dai miei animali e da tazzine di caffè. Comodo ma non bello. Perché io sono, rimango uomo di città, ho bisogno di respirare aria intossicata, movimento, confusione. Spostamenti. Incontri. Qui non mi è stato dato, salvo pochissime eccezioni, ricordo una volta, non so più quanti anni fa, una domenica di prima estate (e anche questo l'ho raccontato, l'ho scritto), c'era stato un omicidio, un albanese aveva fatto fuori qualcuno a coltellate e siccome era giorno festivo mancavano i corrispondenti e mi mandarono sul luogo, fuori dalla mia giurisdizione; poi salii alla redazione maceratese del “Carlino” per scrivere e qui mi accorsi con stupore che i colleghi, anche professionisti, mi conoscevano, mi stimavano anche. Io quella domenica me la ricorderò fin che campo: uscii con la sensazione di essere un giornalista, di aver lavorato davvero. Sera tardi ormai, nella piccola città c'ero quasi solo io e imbruniva, tu sai quel momento quando il giorno non è più giorno ma non ancora sera, tornavo alla macchina stanco e appagato, la giacchetta su una spalla, le maniche di camicia arrotolate. Pensavo che, se quella era la mia vita da venire, non mi dispiaceva affatto.
Non lo fu.
Fu un raro strappo ad una regola di corrispondenze domestiche, di non saper distinguere tra mestiere e routine. È vero, correvo molto in quegli anni, ma poi dovevo rincasare per finire il lavoro e non è così epico scrivere con due genitori che fanno casino, in una casa di quaranta metriquadri, oppure in un sottotetto foderato d'amianto. Ho dovuto accettare anche questo. Ora sono in tanti a raggiungermi e mi dicono: ma lo sai che non mi ci ritrovo, non sono io, non me lo so spiegare. Io invece lo so, altroché se lo so, ma a che servirebbe precisarlo? Ecco cosa mi è mancato della metropoli ed ecco cosa mi è mancato di un mestiere che non è mai stato mestiere: tanto lavoro, ma sempre così, come un curioso passatempo, un baloccarsi, un fingere di darsi da fare. Anche se i giornali il mio pezzo lo aspettano. Anche se chi legge non coglie la genesi. Anche se...
Io credo che questa mia città mi sia mancata come manca un amore assoluto che non si può avere: tutto il resto perde d'importanza, perché tu non sei tu. Senza quella passione non sei tu. Senza essere avvolto da quell'amore non sarai tu, non potrai mai esserlo. Io non sono mai stato io da quando scrissi il primo pezzo, lungo 7 righe. Dopo trentamila volte non mi ha mai lasciato quell'eccitazione, l'adrenalina, la scarica nelle gambe quando scrivo e poi quando esce, ma sempre nel gelo di una esistenza che non ho capito, perché mi è mancato amare, esistere davvero, esaltarmi. Sentirmi avvolto. Soprendermi anche un numero nell'immensità dei numeri, ma numero che respira, che c'è e conta per il suo infinitesimo. No, non ero fatto per questi spazi chiusi, queste strade strette, non per questi voli di treni e di autobus per poi tornare precipitosamente alla base. Ecco perché ho quasi sempre rinunciato. Ecco perché aspettavo sempre un altro giorno. Aspettavo di essere io, di ricongiungermi con la mia parte rimasta lontano, e senza la quale vivere non era possibile. Aspettavo. Aspetto ancora, ma senza speranza: ormai i giochi sono fatti. E anche se ormai lavorare da remoto è la regola, anche se possiamo scrivere da dovunque per trasmettere ovunque, credi pure che è solo una illusione. Una medicina che non guarisce, una droga che non rende felici. Neppure adesso che ho tappato tante bocche, ho dimostrato quello che valevo, sono uscito fuori, mi conoscono. Il mio nome dice qualcosa, ma io sono ancora solo. Più che mai solo. È cercare Dio senza trovarlo, sapendo di non potere trovarlo, ma senza capire perché Lui abbia voluto questo per me.
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