La mia lunga avventura con Lettera43 si ferma qui. Non solo per me: la testata sospende le pubblicazioni da venerdì. Avevo pronto già un altro pezzo, ma ormai... Nove anni e, come sempre, pare un giorno. Pare ieri, e resta solo la nostalgia dei bei momenti. Per questo giornale ho seguito concerti. Ho raccontato i misteri del terrorismo e le bizzarrie della società. Ho ascoltato tanti dischi. Sono stato a Sanremo. Mettila come vuoi è un trauma, perché è una parte di te che si spegne, che ti viene a mancare. E ogni volta, tocca ricominciare. Quanti giornali dietro le spalle, quante rinascite, io. Ogni volta un po' più a fatica, perché l'esperienza, pure quella, pesa. Sta tutta addosso e sta dentro. Centinaia di articoli, il primo fu sul film di Moretti, quello sul papa che abdicava, sembra preistoria, l'ultimo parla di disabili dimenticati nella tempesta del coronavirus e un po' mi dispiace e un po' mi conforta chiudere così: ho ricevuto tante testimonianze, c'è chi mi ha ringraziato. Un pezzo che mi era stato ispirato da due amici. C'è malinconia, e non posso pensare a chi in quegli uffici ci stava ogni giorno, tante ore a spremere impegno, fatica, speranze, coraggio. Scrivendo con questa testata, che stava nel mio quartiere di Milano, sono stato felice, esaltato, malinconico, appassionato sempre, ho pianto sulla tastiera ricordando Lou Reed, David Bowie, Joe Cocker, Anita Pallenberg... L'ultima immagine che lego a Lettera43, quella definitiva, sono io che, dopo una estenuante maratona in sala stampa all'Ariston, torno al mio alloggio, mi infilo per i pertugi di Sanremo vecchia, quella malfamata, incontro bande di giovani magrebini coi cani feroci e gli stereo, sono lì a ubriacarsi e a spacciare ma non devo mostrare paura: metto su la faccia dura, di quello che ha vissuto e quelli mi lasciano passare, mi rispettano. Dopo due sere siamo già quasi amici, quando ritorno, alle due, le tre di notte, ci salutiamo, no, amico, non mi serve niente, voglio solo andare a dormire.
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