Ogni volta che passano Rocky, il primo, io non posso fare a meno di guardarlo. Anche se l'avrò visto mille volte, anche se ce l'ho in tutti i formati, io non resisto e ogni volta mi distrugge. Questione di atmosfere. Luci ed ombre. Quella vita nella vita che è la boxe. Quell'esagerata frenesia americana anni '70, fogna di liquami brillanti, esuberanza angosciosa, ottimismo terrificato. Quella fotografia vivida e livida. Quei dialoghi iperrealisti. L'ingenuità del bestione italiano dall'indomabile cuore, e la tremenda poesia dello squallore. Stallone annaspava nel sottoclou del cinema, un b-porno la settimana. Gli erano rimasti 8 dollari sul conto e lui decise di trasportarsi nel pugilato: scrisse il copione in tre giorni, poi riuscì a farselo finanziare. Dicevano che era scemo. Cercava l'antieroe, il campione nero, l'alter ego di Cassius Clay. Provò coi pugili veri. Joe Frazier, già in declino, non era interessato (ma avrebbe fatto se stesso in un cammeo). Chiamarono Ernie Shaver, che picchiava più duro di Tyson. Stallone aveva scritto maniacalmente tutte le coreografie per le scene del combattimento. “Picchiami sul serio Ernie”. “Sly, è meglio di no”. “Picchiami ti dico, deve essere reale”. “Te lo ripeto Sly, lascia stare”. “Ti ho detto di picchiare, sono io che faccio il film!”. Ernie accompagnò con dolcezza il gancio verso il fegato di Rocky, ma Stallone finì in camerino a vomitare litri di fluidi di tutti i colori. In ospedale videro che aveva tre costole lussate. Due settimane di stop per una carezza. Alla fine presero Carl Weathers, che era scultoreo - ma non un pugile. Apollo è tronfio e furbo, un businessman in calzoncini nella “terra delle opportunità”, ma Rocky pesta i quarti di bue. Frazier, proprio lui, lo faceva davvero, si allenava così.
Adriana, che cambia la vita a Rocky, è Talia Shire, pare che a Stallone l'avesse imposta la mafia. La mafia ci vide giusto, nessuna più di lei poteva impersonare la perdente del negozio di animali, e la scena in cui arranca su una pista di pattinaggio deserta è un sogno di schegge di ghiaccio dove Chaplin e Fellini s'incontrano e la girarono così perché non c'erano soldi per le comparse. Tutto un presepe di perdenti la Filadelfia di Rocky. Perfino il boss Tony Gazzo è uno sfigato, uno che non fa paura a nessuno. Gazzo è un fallito, Adriana una nullità, Paulie suo fratello un disperato, l'allenatore Mickey un rottame, il barista un rassegnato, e i bambini nascono, crescono condannati. Orrenda, deformata gente, senza niente da vincere e da perdere. Talmente piegati e piagati che gli altri li trattano come subnormali, ci si trattano anche fra loro e va a finire che ci credono, si comportano, si muovono in quel modo sconnesso, dissociato. Invece è solo mancanza di speranza. Il regista Avildsen non mette in scena una commedia umana e tantomeno il compiacimento della deriva della beat generation, e men che meno la grandiosità tragica di Hugo. Nei suoi vuoti, nei silenzi, nelle dilatazioni degli sguardi, delle smorfie c'è la tenerezza della disperazione di Simenon, neanche di Céline, che alla fine il brutto lo corteggia per possederlo, di Simenon, che lo accetta per quello che è.
Rocky è un fallimento totale, come pugile è insensibile, come esattore per Gazzo si intenerisce. Quando riceve la sua occasione è già tardi, non vuole vincere, vuole solo perdere con onore, a costo di farsi ammazzare. Non chiede altro, perché non c'è altro da chiedere. Ed è così poetico il suo stato di disgrazia, sono così immensi lui e Adriana sul letto fatto di stracci, la notte prima del massacro. Si consolano a vicenda e sembrano dirci: ma chi, in fondo, non è fallito come noi?
Io vidi questo film che avevo undici anni e rimasi sconvolto come uno che capisce allora il suo destino; il giorno dopo guadagnai una libreria, a undici anni, a cercare il libro con la sceneggiatura e lo sapevo a memoria e poi l'ho perso e ancora non mi davo pace. L'ho scovato, finalmente, su Ebay. Guai a chi me lo tocca. E' tutto scrostato, gualcito, proprio come Rocky, ma lo so a memoria e ricordavo ogni riga di ogni pagina. Forse è proprio lo stesso che avevo perduto tante vite fa. E adesso che ho i miei anni parlo ogni volta che posso della dolcezza che sta in una sconfitta, scrivo di pizzerie con tovagliette di carta dove nessuno siede, scrivo di chi mi scrive ed è quasi sempre gente piegata e piagata e amo Simenon e conosco a memoria ogni battuta di Rocky, il primo, e quando all'ultima scena, al termine del cruento incontro, durante il quale Rocky è uscito definitivamente dall'infanzia, vale a dire, con Malraux, ha compiuto il suo atto di eroismo, lui coperto di sangue chiama la sua Adriana con lo sgomento rabbioso di un bambino, io provo esattamente la commozione infrenabile della prima volta. È una scena puttanesca, prevedibile, ruffiana ma mi piglia sempre a tradimento, perché prima ci sono due ore di gente che cercava solo di vivere.
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