Quando facevo il liceo
avevo un gran naso e il pessimo gusto nel vestire tipico dei
semplici, dei poveri di famiglia modesta: e i compagni, difatti,
infierivano nei modi più fantasiosi, nasone, Battiato, Pippo Franco,
le caricature in cui mi impiccavano per il naso e poi terrone,
barbone, avevo scovato una vecchia atroce giacca di pelle smessa da
mio padre e subito mi guadagnai il titolo di controllore dell'ATM.
C'era tutto il campionario di disprezzo e razzismo democratico,
perché quei compagni eran tutti di ottime famiglie – loro –
civili e progressiste che, agli incontri coi genitori, facevano
sfoggio di citazioni di Gaber e di De André. Poi la vita mi traslocò
coi miei qui, nelle Marche, dove vivo da 35 anni e la solfa
ricominciò alla rovescia: che cazzo vuoi, milanese di merda, ti
spacchiamo le ossa, che c'hai da dire, faccia da nordista, tornatene
a Milano, qui comandiamo noi. Io non mi sognavo proprio di comandare,
ero un ragazzo nasuto e fragile che aveva solo tanto bisogno di
amici. Posso dire di avere sperimentato, rigorosamente da fonte
democratica e antirazzista, ogni genere di pregiudizio razziale,
geografico e anatomico. Sono stato insultato e umiliato da
meridionale, da migrante, da bruttone (poi mi sono operato, perché
quel naso era una vela lacera in più punti), da “subalterno”,
come usa oggi chiamare i poveracci, e quello sprezzo si riverberava
sui miei genitori. Ne ho sofferto, ma non mi è mai saltato in mente
di atteggiarmi a vittima del fascismo. Oggi sento la stessa schiatta
dei buoni minacciare di morte chi si permette una garbata ironia su
un vestito inadeguato e rifletto: in apparenza, il politicamente
corretto ha fatto passi da gigante, sia pure da gambero, in realtà
non è cambiato niente: c'è un monopolio dell'intolleranza, del
disprezzo, del razzismo, quello vero, che non abiura mai. A parte il
naso, sono sempre io, terrone, milanese, e più pezze al culo che
mai. No, non è cambiato niente.
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