M'incontra un'amica, “che
fai di bello?”, “sto diventando matto per lo spettacolo di auto
storiche di domani, lo conduco tutto da solo e come sempre c'è
ancora tutto in alto mare”. Lei sorride, “ti ho visto da
Cristicchi la settimana scorsa, li hai stesi tutti”. Poi mi dice:
ce l'hai fatta, scrivi su diverse testate nazionali, conduci, ti
esibisci; quando parlo di te riscontro sempre rispetto, anche da chi
non è d'accordo, nessuno nega il tuo coraggio, la tua lealtà; sei
nel giro di quelli che fanno opinione, lo sai. Lo so? La guardo con
sospetto, ipercritico come sono verso me stesso, ma capisco che lei è
sincera: mi vuole bene, lo so, mi stima, lo so. Allora perché fatico
a crederle, perché, più precisamente, provo uno strano, malinconico
fastidio? Forse perché il prezzo da pagare per essere arrivato fin
qui, per “essere (più o meno) famoso”, è troppo salato. Troppo
in tutti i sensi. E non c'è più tempo per rimediare. Sì, io volevo
disperatamente scrivere, volevo vivere di questo, dare prova del mio
valore, cacciarmi nei guai, volevo fare il giornalista rock (come
attitudine, intendo), volevo esserci ed essere apprezzato per il mio
lavoro. E adesso ho ventimila articoli dietro di me. Adesso succede
che, se raggiungo un posto a tanta strada da casa, trovo gente che mi
aspetta. Che si aspetta qualcosa da me. La accontento sempre, ci
riesco, perché quando sono lassù, non baro: il primo a sconvolgersi
sono io, sul palco Simone Cristicchi si è accorto che oscillavo, la
mia mano sul microfono tremava. È uno shock che conosco bene, so
governarlo ormai. Ma ogni volta distrugge, io ve lo dico: non c'è
quel cinismo che preserva, io sento sempre tutto fino in fondo e non
nascondo niente, non simulo niente. Bisogna morirci lassù, altrimenti non vale. Godo del rispetto di tanti
artisti, di persone di successo, di lettori più o meno importanti,
ma ugualmente di valore e comunque ugualmente importanti per me. Solo
che mi sono perso tutto il resto e non è una frase a effetto, non
c'è vittimismo, credetemi. Dovessi tornare indietro, non prenderei
più questa strada: essere arrivato fino a qua è già un miracolo,
ma non ne valeva la pena. Forse non ero adatto per tutto questo. I
giorni senza luce sono stati troppi e incomparabilmente di più, le
delusioni e la solitudine si son fatti vortice, ci ho rimesso spesso
la salute, e definitivamente la speranza. Troppi i fraintendimenti,
la proiezione sbagliata di me, quello che la gente ha preferito
pensare. Troppa la fatica di orientarmi, di prescindere, di tirare
avanti in qualche modo. Troppo assurda la sensazione di essere
completamente solo in mezzo a chi mi legge e, a modo suo, mi fa
vivere e mi consuma. Io penso a me come a uno che è andato nella
jungla, e in qualche modo è tornato; ma col disturbo da stress post
traumatico. So cosa vuol dire l'applauso di un pubblico, ma conosco
anche il suo odio e la sua indifferenza. Ho pianto molto più di
quanto ho sorriso. E non mi scalda più di tanto – non più -
l'idea di scaldare qualcuno. E non me ne frega più niente se sto nel
giro di quelli che fanno opinione. Tanto è vero che non ho mai
brigato per farmi conoscere di più, magari in televisione. Avrei
voluto una vita diversa, ritrovarmi diverso. Avrei voluto quello che
non ho avuto, non questa libertà troppo pesante da portare, questa
schiavitù di essere quel che rimane di me.
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