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DANIEL (TUTTA LA VITA)


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Ci sono ricascato. Sono ancora qui, a sfogliare questa piccola sconosciuta epopea animata che mi ha cambiato la vita come solo un fumetto può cambiarla a un adolescente. Daniel uscì nel remoto 1975 (se ci penso ho un brivido), venne riproposto nel 1992, e in entrambe le occasioni non ebbe la fortuna che meritava. Troppo avanti, si consolò il suo creatore Max Bunker (che, da me interpellato, ha sentenziato con rimpianto: Daniel mai più). Sì, troppo avanti. Arrivava in distorsione l'onda lunga dei fumetti neri, tutti dalla parte del Male (Kriminal, sempre di Bunker, aveva appena chiuso, e farà una comparsata proprio in questa miniserie), e per le storie “dalla parte della legge”, quel '76 che preparava la sovversione di massa del Movimento, proprio non era pronto. Si aggiunga che Daniel è la trasposizione a fumetti di Callaghan, identico nella fisionimia di “occhi di ghiaccio” Clint Eastwood, nel carattere e nella violenza. Ecco, se amate Callaghan, recuperate subito questa serie (su ebay non sarà difficile, ma anche in certi mercatini estivi), di appena 15 numeri, e tuffatevici, ovviamente con colonna sonora ad hoc. Ritroverete gli stessi sapori di avventura per un uomo sradicato, insofferente, solitario e comunque solo. Daniel in realtà non nasce sbirro, e neppure con quel nome. Sotto la sua faccia ci sono i resti di Bill Hicock, uno spostato, reduce dal Vietnam, che va alla deriva finché finisce in una clinica clandestina dove si cambiano i connotati. Qui, per una serie di circostanze, viene salvato dal vero ispettore Daniel, che ci lascia la pelle e gli lascia volto e ruolo, dato che la faccia è prodigiosamente la stessa.
Solo che il nuovo Daniel è l'esatto contrario dell'altro. Tanto duro ed essenziale, quanto il primo era verboso e inzuppato di belle teorie progressiste sul recupero della società e l'altro mondo possibile. Daniel-Hicock invece è un realista. Sa che un altro mondo non c'è, non è possibile, il mondo è crudele e bisogna nuotarci dentro. Perseguitato dagli incubi e dai sensi di colpa, non può fare a meno di continuare la sua guerra personale, non più contro i vietcong ma contro il crimine e le istituzioni corrotte, colluse con quel crimine fino al collo. In questo realismo che mai sconfina nel cinismo, il fumetto è felice. Daniel non ha nessuno a guardagli le spalle, deve farsi più violento dei violenti e ci riesce, perché sotto il suo bel volto c'è un uomo che non ha più niente da perdere né da vincere. L'approfondimento psicologico del personaggio è costante, in evoluzione episodio dopo episodio, e affiorano sempre nuovi comprimari a corroborare le storie, sceneggiate fra azione e vita privata. Dialoghi secchi ma centrati (maestria di Bunker) e un disegno strepitoso, del perfezionista Frank Verola, confezionano così una serie che colpisce al cuore, anche per i frequenti momenti di abbandono e di tormento del protagonista.
Ricordo che quando questo 12enne che adesso vi scrive lo scoprì, ne rimase scioccato: mi ci identificavo così tanto, che ne avevo fatto una malattia. Volevo essere disperatamente Daniel (senza riuscirci, mi pare chiaro) e non potevo più leggere altro. Poi la serie, penalizzata da un pubblico ingrato, si sfilacciò e finì male: gli ultimi numeri sono davvero da serie B. Ma la fascinazione è rimasta, tornare dentro quelle tavole significa ritrovare una città che non ho più, con tutte le sue atmosfere, con l'intatto stupore di quel ragazzino che, crescendo, trovava tutto eccitante. Questa serie la conservo completa, religiosamente custodita; mi ha seguito in tutti i miei percorsi, nei traslochi, nei vortici di solitudine e di angoscia che a volte non riesco ad arginare, m'inghiottono, non ho scampo. Ogni volta che entro in crisi, che sprofondo e debbo risalire, ogni volta che mi sento nel braccio della morte io riprendo in mano quel primo albo, e poi tutti gli altri. Ho bisogno di immaginare una palingenesi anche per me, come se, riscuotendomi da un incubo, mi scoprissi diverso. Più duro e maturo. Più uomo. Quell'uomo che non ho mai saputo essere a dispetto di tutti i miei tentativi. Non più un vetro da frantumare, non più un fuscello che il vento della vita sconvolge a piacimento. Non più la proiezione di una manciata di parole incolonnate, che non riescono a nascondere un tormento senza speranza. Io accetto le mie distorsioni, le conseguenze dei miei errori, le responsabilità che ne sorgono. Solo, vorrei imparare a sopportarle, a conviverci meglio di così. Vorrei uscire dalla camicia di forza di quel bambino che continua ad infrangersi, pur sapendo che il mondo è crudele, ma senza la forza per difendersi. E tu mi potrai dire che non funziona così, che un fumetto è appunto roba da ragazzi. Ma io so che per illudersi di ricominciare, anche uno specchio di carta può servire.

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