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PER NON CADERE



Un attimo fa era ferragosto e stavo inzuppato in mare, un attimo dopo viene giù un vento freddo, è metà novembre, con puntualità impeccabile, perfino un po' in anticipo, siccome c'è il riscaldamento globale. Non ho voglia di uscire al pomeriggio, sono stanco, sono in un villaggio dove c'è quasi nessuno, manca due ore a cenare e mi rifugio dentro Rocky. La milionesima volta che lo vedo, lo so tutto a memoria, ma è di quelle cose che ormai stanno nel mio dna, sono parte di me, come un Maigret prima di dormire, come altre manie, fissazioni da uomo che invecchia. Quelle cose che ti dispiacerà lasciare quando morirai. E sul computer mi riprendo Rocky, il primo, gli altri si possono lasciare andare ma quello no, è un disco di Tom Waits il primo Rocky, è puro squallore dall'inizio alla fine. Dall'inizio, con quell'atroce combattimento in una fogna, finito a testate, a mazzate, fino al trionfo perdente dell'epilogo, uno sconfitto che non s'accorge di vincere, perché troppi fallimenti ha addosso, “Adrianaaa!, Adrianaaa!, lasciami stare, non mi frega a me del futuro, vattene via, Adrianaaa!”, e ha paura, paura di quello che ha fatto, che è diventato, che è sempre stato, che non è più, della folla, paura di tutto. Il primo bacio, nella stamberga di lui, è la fusione di due relitti. “Non cadere!!! (non cadere... non cadere...) nella pista di pattinaggio deserta: due disadattati, due perdenti, uno sorregge l'altra per non cadere, forse non rialzarsi più. Tutto è miseria in Rocky, anche la gioia. Tutto è disperazione, più feroce perché non si rassegna - “è una cosa temporanea, eh!” - e non si redime e non ho mai visto rendere lo squallore con una poetica così viva. Le musiche, le ombre delle navi al porto, giganteschi fantasmi di miseria. I quarti di bue nella ghiacciaia, tutto ha un simbolo preciso ed ogni simbolo converge verso il nulla, che inghiotte, che condanna, che si spiaccica per terra come il tacchino del Ringraziamento che Paulie, esasperato, inforchetta e scarica nel vicolo per ricattare d'affetto la sorella: “Vai, esci, goditi la vita, talpa!”. La luce è l'amore. Questo amore piegato, che non costa niente, ma che vale tutto, perché è l'unica cosa. L'unica uscita è accettare la sconfitta eterna, ma con onore: se io arrivo in piedi quando suona l'ultimo gong, per la prima volta in vita mia saprò che sono qualcuno, che non sono solo un bullo di periferia. Invece rischia di vincere, di fatto vince, ma è troppo incallito nel dolore per capirlo: vattene via, via, Adriana, Adriana dove sei.
Per me è impossibile non sentire questo film parte di me, non sentirmi parte di lui. Identificarmi, certo: sono patetico, lo so, ma non m'importa, io un milione di volte ho rispecchiato il destino di Rocky in quello mio, io non so come si fa ad essere felici, mi fa paura solamente l'idea, e quando lui disperato urla a Mickey, che sta scendendo le scale per andarsene, “L'apice! Dice l'apice, io non ce l'ho mai avuto un apice, tu almeno ce l'hai avuto, io mai, mai!”, ogni volta io capisco che quel film deve la sua immortalità al suo non essere un film, quando lo scriveva, Stallone parlava di sé, sceneggiava un diario; e quella confessione andrà bene in eterno, perché per sempre ci sarà chi non ha avuto un apice e sa fare solo quello che lo uccide e un pomeriggio di novembre, che non c'è nessuno in giro, solo vento dai Balcani cercherà la compagnia del pugile in disarmo che, all'ultimo momento, afferra un gancio nel cielo, si gioca la sua occasione, massacra il destino e se ne fa massacrare perché non ha più niente da perdere, ma è troppo incallito al dolore per capire che ha vinto, e perde ancora.

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