Quando dico che per
vivere scrivo, nonostante tutto riscuoto ancora sorpresa, perfino
ammirazione. Ma poi, una sera di un giorno da cani, succede che una
amica distante, ti avverte: è mancata... E tu non pensi che muori un
po' con lei, la tua primissima fidanzatina, tu senti quell'impulso di
scrivere, di raccontare per raccontarti; per non morire davvero anche
tu, chi lo sa, per farti consolare, non lo so. Io non lo so. Io so
soltanto che la danza di fantasmi e di paure si traduce in parole e
debbo stenderle. E scrivere, allora, diventa qualcosa di non così
innocente, comunque una tenerissima crudeltà. Seguimi: io ripenso a
noi bambini, alle nostre mosse, i nostri giochi di bambini, ripenso
al tuo sorriso biondo, agli occhi che cercano i miei occhi, a quella
manina che mi saluta e non importa se sono passati cinquant'anni, è
tutto ancora in me e tutto torna fuori con la violenza di un vulcano:
so che quei fantasmi vivranno per sempre, perché quei bambini,
stavolta, sono morti per sempre. E allora scrivo, come un altro si
ubriaca io scrivo. Mi stordisco di parole se vuoi. Ma seguimi: io
ripenso a noi bambini, alla nostra innocenza, al mio ignorare che un
giorno racconterò della tua morte; di te, morta. E allora muoio
anch'io mentre ti sopravvivo. Mentre scrivo. E non lo so se è
giusto, se non sarebbe meglio tenermi tutto dentro, non so nemmeno se
questa mia esposizione del dolore non sia, in fondo, altro che una
forma di esibizionismo miserabile. Ma, seguimi: io rivedo noi, il
nostro candore, la nostra certezza di eternità e la scoperta che tu
sei destinata più di me, che quel bambino una sera lontana, una sera
che arriva in un attimo, dovrà parlare di una bambina, che dovrà
raccontare chi eri, chi non sei già più, è la cosa più atroce,
l'esperienza più atroce. Ecco, cosa è scrivere. Ecco cosa mi
invidi, cosa ammiri di me.
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