Per uno come me,
discendente da tradizioni contadine, discendente di cacciatori, è
difficile capire cosa sta succedendo. Dico uno come me, che non ha
mai sparato neanche a un orso di pezza, che non ha mai imbracciato un
fucile ma può rispettare il rito atavico dell'uomo nella natura, che
non demonizza il regolatore naturale e prudente che mangia quello che
caccia e non indulge in stragi gratuite. Ma è difficile capire la
degenerazione di una pratica che, da discutibile ma almeno capace di
suggestioni ecologiche anche educative, si va trasformando in una
mattanza senza senso. Un ragazzo di 19 anni fulminato perché
scambiato per un cinghiale e difendono il cecchino con argomenti tra
il cinico e il fatalistico magico: il bosco è arcano, pericoloso,
non doveva entrare in riserva, ci sono i cartelli. Sì, ci sono i
cartelli e c'è la riserva, ma manca la prudenza del buon senso, non
si può obiettare che “io sparo a tutto quello che si muove”,
questo è furore venatorio e sta a un passo dal crimine. Saremo
esagerati noi figli del boom non della guerra, che abbiamo perso il
retaggio biologico, che nei nostri animali domestici, addomesticati
troviamo volontà e sentimenti e ne parliamo come dei figli che non
abbiamo avuto, noi che con le bestie abbiamo un legame non più
contadino, utilitaristico ma paritario, se si vuole patetico. Ma la
difesa a oltranza tra cacciatori, come in una setta, senza sospetti,
senza dubbi, non si può sentire. Il giovane Nathan Nabolani è
caduto quasi sul colpo, raggiunto da pallottole micidiali, adatte per
animali selvatici di grossa taglia e lo si considera un incidente,
quasi una seccatura. Una preda sbagliata e in questa autoassoluzione
collettiva, di categoria, c'è qualcosa di assurdo, di repellente. I
vari enti a protezione degli animali, Lipu, Enpa, saranno pure dei
burocrati autoritari che fanno politica e vogliono imporre il divieto
per legge, ma come dar loro torto quando parlano di situazione
sfuggita di mano, quando fanno notare che questa è una emergenza,
tra i venti, venticinque umani ammazzati ogni anno, spesso anche fra
cacciatori, per non parlare delle stragi di intere specie, del
bracconaggio? Continuano a chiamarlo sport, ma, ammesso che lo sia,
questo curioso sport che consiste nell'accoppare all'ingrosso sembra
sempre più preda di un doping incontrollato. Il giovane Nathan amava
il suo cane e tutti gli animali, aveva con loro un rapporto
totalmente ribaltato, di amore non finalizzato, di compenetrazione
esistenziale, tutta roba che i cacciatori compatiscono ma forse ad
aver perso equilibrio e senso di realtà sono proprio loro: non più
riequilibratori di niente, non depositari del rito atavico, cacciare
o essere cacciati, mangiare o morire, solo prede di una esaltazione
che equipara un ragazzino a un cinghiale, un incauto che nel suo
addentrarsi ha rovinato una gara tra cinghialai, una competizione
forsennata dove “si spara a tutto ciò che si muove”. Saremo noi
smidollati, incapaci di vedere in una bestia una preda, refrattari
alla sinfonia della doppietta, ma davvero non riusciamo a capire
questa foga incontrollata, che, volendo, si potrebbe sfogare con un
iperrealistico videogioco, con una playstation che, per violenta che
sia, almeno non fa vittime.
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