Al primo che mi viene a
parlare di provvidenza, tolgo il saluto. Non esiste la provvidenza,
se mi guardo indietro non trovo un solo giorno di sollievo, di
speranza: è stata solo una cavalcata insulsa e disperata, ho
bruciato la vita scontando le conseguenze di scelte altrui
scellerate, e in seguito nella necessità di fronteggiare, come potevo, gli effetti
di quelle situazioni; nella ingratitudine, spesso nella indifferenza
di chi mi stava vicino. Mi sono abituato ad essere sfruttato, irriso,
perfino compatito per un talento che non sono riuscito a far
fruttare: ma provatevi voi, esuli in un posto dove non succede mai
niente, e mai accettati, sempre riconosciuti come foresti, come
diversi. Io il mio terremoto lo sconto da 34 anni, sono un eterno
migrante che ha dovuto fare tutto da solo e al quale quasi nessuno ha
porto un dito. I miei binari non andavano da nessuna parte. Adesso mi ritrovo con una madre all'ultimo stadio,
ingovernabile ma pur sempre ostinata come da giovane: la sua
irriconoscenza è atavica, prescinde dalla coscienza. Non c'è via
d'uscita, nessuno potrebbe sopportarla, ma io non mi sento di
arrivare alla soluzione drastica: me la tengo, e intanto mi consuma,
mi ammala, mi uccide. Non c'è altro, i giorni sono d'inferno, senza
spiragli di sole. Provvidenza? Dio che sa di cosa hai bisogno? Dio
non esiste ed io pure vorrei solo non esistere, non più, perché la
mia non è mai stata vita. Non voglio più ascoltare nessuno, più
aiutare nessuno, fosse anche il mio stesso sangue: non ci riesco
oltre, non ne ho più. Non parlatemi di Dio, questo inganno feroce,
non illudetemi con una provvidenza puttana, che non ho mai
incontrato, che ho sempre visto piovere su chi non la meritava; non
stancatemi oltre col premio da riscuotere quando i vermi o il fuoco
mi avranno mangiato: non sono stupido e non sono un bambino, sono un
uomo distrutto, che non vuole più andare avanti, che non trova
motivi per andare avanti e si alza al mattino con terrore e fatica,
sapendo a cosa andrà incontro. Il dovere di lavorare praticamente a
cottimo, da una vita, senza mai potersi permettere una fuga, e,
adesso che sono vecchio, il dover rifare ogni giorno ciò che una
madre disfa nella sua demenza. Questa è la mia provvidenza. Ho
provato ad avere forza, coraggio, ma non sono indistruttibile e non
ho più neppure l'energia di un sentimento; neppure quella di
illudermi ancora con una risata. Oggi, come ogni giorno, avrò perso
due chili in sudore andando su e giù, pulendo, tamponando
l'impossibile. E poi arrivo allo spaccio e c'è la solita risorsa
migrante telefonante che mi spara il cappelletto in faccia. Amico,
vuoi venire tu a darmi una mano? Ma scommetto che non accetterebbe
mai. E debbo pure sentirmi giudicare dai restiamo umani, dai cuori
sensibili, quelli pronti a vergognarsi di chi non è come loro. Io
una cosa posso dire: di tutti i restiamo umani che conosco, non ce
n'è uno che non sia una carogna; un pezzo di merda. Gente che si
preoccupa solo di se stessa, che non ho mai visto fare niente per
niente e per nessuno, e che, se ti vede in ginocchio, ti molla
l'ultima calcagnata alla tempia, per finirti. Quante volte mi è
successo, e quanti ne vedo pontificare, professare una umanità che
non hanno avuto mai. Quanti ne vedo nausati di dover vivere in mezzo
a individui arcigni, miserabili, che non sono come loro. Ma la loro
pietà è bugiarda, ideologica, non sono capaci neanche di una
telefonata per dirti “coraggio!”, per chiedere di una vecchia che
pure li ha ospitati, li ha conosciuti. No, direi che non trovo una
sola eccezione e che di questa gente io non so cosa farmene, neppure
sotto forma di un ipocrita contatto su Facebook. Fatemi una cortesia,
almeno una, che non vi costa niente: sparite da soli, risparmiatemi
una fatica supplementare che mi costa cara, fate che non che non vi
veda più con le vostre falsità imbecilli, con la vostra faccia da carogne.
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