Quando perdi un amico non
è mai una festa. Ci hai fatto lunga strada, l'hai più volte
ripreso, sei andato a raggiungerlo negli abissi più lugubri, nel
traffico che non lo vede, nel suo mondo che lo rigetta. Ma la vita ci
cambia, in meglio quasi mai: la cosa peggiore che ti può accadere, è
di avere fortuna. Allora impari a sprecarla, e, siccome ti va bene,
ti convinci che è un tuo diritto, che la farai sempre franca.
Diventi uno che non sai, che non so, non ti conosco più. Io non ti
seguo più in quei vizi tuoi, in quelle abitudini così assurde,
evitabili. Così non da te. E alla fine, l'unica cosa da fare è
reciderti, come un ramo, un braccio. Un tratto di vita. Ma poi esce
fuori una canzoncina, di quelle che ascoltavamo in gita, a scuola con
le cuffiette, a casa di uno e dell'altro, su uno stereo decrepito, su
un'autoradio, salta fuori la tua espressione, il tuo balcone, quella
luce, quella voglia di futuro e di scemenze, e le feste alcooliche e
le confidenze, perdersi e ritrovarsi sempre, perdonarsi nel segno di
quel balcone, quella luce, un passaggio ed un gol, un compito
passato, la maturità di carta, e ancora e ancora, e adesso che ci
sarebbe bisogno d'invecchiare insieme non poterlo fare è un peccato,
credimi, è una cazzata inutile. Tornare ad essere, chissà.
Recuperare noi. Come allora difenderci, sorreggerci nel tempo che
vola, che ci porta via.
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