Io la uso
anche nel gelo, ma se accetta di salirci mia moglie vuol dire che
l'inverno è proprio finito. Oggi primo ritorno in Vespa, direzione
San Benedetto e ancora più in là, dove portano le ruote, dove siamo
stati troppo o mai, la Vespa è per disperdersi. C'era una luce
antica, dentro mi esplodevano sinfonie di canzoni: le porto con me, a
mazzi, ogni anno suonano meglio: non sbiadiscono. È come se,
invecchiando, i fantasmi entrassero più facili e profondi, la spugna
che sono sempre stato non ha più filtri, più nessun ritegno. Ha
fame di rivivere, non le basta questo esistere. Cerca cime tempestose
di ricordi, sensazioni. Passavamo una scuola che mi ha sempre
incantato, affacciata sulla Statale, emeriti imbecilli vorrebbero
cancellarle perché le ha tirate su il Fascismo ma cosa vi ha fatto
di male una scuola che affiora dietro una trama di piante, finalmente
esplose di verde, che respiri solo a vederla? Siamo noi ad esserci
cresciuti, sono parte dei nostri sogni, della paura vergine di stare
tra altri bambini. Quelle di oggi non sembrano centri commerciali o
di prima accoglienza? Dov'è la poesia, dov'è l'amore? E mi sentivo
disperato e esaltato, sotto il casco piangevo per tutto ciò che è
stato, che non è stato mai, ch'è andato perso e non so farne senza,
per una vita difficile da dire anche se ci
ho provato, per questa età sospesa, che
si assottiglia ogni notte e non mantiene niente e non promette più
niente. E poi sentivo qualcosa di antico e ridevo, felice, per ogni
momento che mi aveva portato fin qui, a quest'altro risveglio, per
tutte le avventure, per non essere stato come gli altri, mai, per chi
mi ha detto “sono felice di averti incontrato”. Anche voi vi
porto con me, come le canzoni. E mi rideva
in cuore la speranza di una stagione grata, da percorrere seduto,
senza traumi per una volta, senza noie borghesi. C'erano giochi di sole tra le palme e
la gente precocemente scoperta che rinasceva. Tutto rinasceva. Tutto
si scuoteva dall'incantesimo come una perenne principessa, gli
alberghi, gli stabilimenti balneari, i locali, i cani, i negozi, il
cielo che veniva incontro, la strada sotto le ruote, le corse dei
ragazzi, le tette delle donne. Il mare stesso, il mare amico e
spietato sembrava chiamare. Chi divertirai tra poco, chi
t'inghiottirai? Guardo il cruscotto della Vespa e quant'è vero Iddio
si trasforma nella Vespina a pedali che trovavo in casa reduce
dall'ospedale, palato ricucito, parola conquistata. Cosa puoi
ricordare dopo cinquant'anni di quel piccolino di trentasei mesi? Ma
io ricordo. Davanti a me le corsie e il letto, tonache e camici, il
pigiama e i giocattoli regalati a chi li chiedeva, ricordo, più
sfumati, certi volti figli di natura matrigna, i pianti ad ogni sera,
che rimanevo solo, le mie braccia ingessate e i punti tolti e il sole
dietro al vetro che volevo spaccare, e ricordo la Vespa che a
correrci in corridoio – oh! - s'accendeva il fanale. La prima voce
che sento uscire da me, “Papà, che bello!” e lui fugge
sconvolto, piange dietro la porta, accasciato sulle scale, lo sento
singhiozzare, mi spavento, domando, mia madre mi divaga, sento un
male che allaga.
Commenti
Posta un commento