Stamattina mi sono
svegliato che stavo litigando con mio padre, quanto potevo avere?,
ultimo anno di liceo mi pare. Litigavo, una bella litigata, sana, da
uomo a uomo, come non mi è mai successo in vita: prima era troppo
presto, dopo era troppo tardi e lui non era uomo da mettersi in
discussione. Mi sono levato carico di orgoglio, leggero, la
soddisfazione di avere detto tutto, di avere chiarito tutto, da uomo
a uomo, su quella cazzo di famiglia di vittime, dove tutti non
facevano altro che lamentarsi, nei giorni buoni come in quelli
cattivi, senza riconoscenza per il Padreterno. Ma una famiglia non
dovrebbe essere un imbuto, dovrebbe essere un rifugio, dove ci si
mette in discussione ma ci si protegge, ci si sorregge, senza evitare
le proprie responsabilità: morale nelle cose grandi, immorale in
quelle piccole. Facile a dirsi, a sognarsi! Dopo sono uscito, sono
andato da mia madre che era la più anziana ed è sopravvissuta a mio
padre e anche a se stessa, ma non è più lei. Camminavo dentro una
sensazione che aspettavo da una vita – una vita sprecata -, quel
percepirsi adulti, forti, quel capire il perché di mille traumi,
quel vederci finalmente chiaro al punto da averla raddrizzata quella
cazzo di famiglia contorta, al punto da consigliare il mio vecchio
sulla crisi che la sua azienda sopportava – e che ci avrebbe
scaraventato via, lontano da noi. Da uomo a uomo. Camminavo essendo
chi non sono stato. Sono qui, mi vivo come posso, perennemente in
ritardo esisto in un posto mai mio, sento la mancanza di me, di lui,
del mercato del sabato nella brutta strada di via Wildt con tutto
quello che girava intorno, di tutte quelle vie che erano brutte ma
belle, potevano essere belle, se solo fossi stato all'altezza (girarle con Google Map non è la stessa cosa, io custodisco mondi che non ci sono più).
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