Il flop fresco fresco del
treno superveloce crucco accende in me futuribili rimpianti: come
sarebbe bello, anzi come sarebbe stato bello, poter contare su un
supertreno anche da noi, tipo quello giapponese che fila ad oltre 500
chilometri all'ora con punte oltre i seicento: ad un provinciale mai
adattato come me, dannazione se avrebbe fatto comodo: salire,
arrivare a Milano in un'oretta o poco più, sbrigare le mie cose,
tornare in tempo per la cena. Allora sì che non mi sarei sentito
staccato da niente, anzi avrei finito perfino per apprezzare a tutto
tondo la fortuna di vivere al mare (e di poterci tornare nel giro di
una compilation sparata in cuffia). Ma è ancora fantascienza: se
voglio salire nella “mia” città, debbo alzarmi all'alba,
arrivarci all'ora di pranzo (salvo ritardi), subire almeno un paio di
cambi, arrivare già cotto e trascinarmi per tutto il giorno, e di
tornare alla base in serata non se ne parla proprio: sono costretto a
trovarmi un albergo, o un amico, ma gli amici hai sempre la
sensazione di rompergli le balle, tengono famiglia, hanno i loro
orari, le abitudini, gli impegni. Così finisce sempre che ci
rinuncio e resto inchiodato dove sono. Invece un'alta velocità degna
di questo nome (mi) ci vorrebbe eccome: invidio senza ritegno i
giapponesi che hanno la tecnologia e soprattutto non hanno i notav,
tradotto: fannulloni che rifiutano tutto tranne le comodità che
altri hanno preparato: viaggiare per credere, non ne trovi mai così
tanti come sul Frecciarossa. E se un Frecciarossa degno di questo
nome lo prendi, la capisci subito la differenza: salgo a Bologna,
nella stazione sotterranea, dopo 50 minuti scendo in Centrale, non me
ne sono neanche accorto, però mi accorgo di rivivere già, di
ritrovare chi sono. Sarebbe un miracolo delle famose infrastrutture
che innervano un Paese e servono a farlo produrre, lavorare,
incontrare, in definitiva a farlo stare meglio. Ma no, non si può,
ciò che altrove è un punto di partenza da noi è sempre un
ambizioso traguardo, ieri sono stato nella stazioncina di San Giorgio
e l'altoparlante latrava rosari di ritardi, uno, sui 140 minuti, che
sarebbero due ore e venti ma così fa meno effetto, era addebitato a
“riscontri dell'autorità giudiziaria a seguito di suicidio sotto
un convoglio”. Di solito, però, le ragioni di certe clamorose
attese sono più misteriose, a volte esoteriche. Il mondo va avanti,
noi dobbiamo salvaguardare i sentieri a dorso di mulo, naturalmente a
parole. Non mi consola la dafaillance teutonica, non mi diverte
constatare l'imbarazzo della fraulona Merkel, sogno treni iperveloci
capaci di bypassare, collegandoli davvero, i confini di questa Europa
che non c'è, che si preoccupa di inserisce insetti nei nostri menu.
Sono un povero provinciale di mezza età, lo so bene, ma continuo a
rimpiangere qualcosa per me di inestimabile, qualcosa che, quando
arriverà, potrà solo darmi malinconia, perché sarò in età, se ci
arrivo, da non poter più salire altrove che su una carrozzina.
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