Ti
ricordi maestra quant'ero vulnerabile in classe, anche da un fiocco
di neve? Non sono mai cambiato, è quel che mi ha perduto ma mi ha
anche salvato. Posso sempre rifugiarmi nei miei mondi inaccessibili,
fatti di sensazioni che mi stordiscono come il più dolce dei
narcotici. La fine dell'estate, fine percepita, non reale, è un
momento straziante che consola, riporta chiaroscuri, confonde di
squarci d'estate serotina, ma non posso più distillarlo come al
solito: salendo in Vespa all'ospedale, per constatare ciò ch'è
rimasto di una madre dopo due ictus, la strada si trasforma nel
tragitto per andare a scuola: di colpo sono sotto il ponte mefitico
che portava via Porpora in via Rombon, lo facevo tutto in apnea,
sulle mia gambette magre, per non guastarmi i polmoni; un bagliore di
sole e sono in direzione opposta, sul motorino orrendo “Chiù”,
due blocchi di acciaio malsaldati per una testata da biciclo, che dopo
un po' non ce la fa, diretto al liceo Carducci, a distillare l'attesa
d'un altro anno massacrante e divertente. È incredibile, ma
l'asfalto corre sotto la Vespa e mi sento felice, pilota automatico
immagino metropolitani tepori quasi autunnali, fantastico di sentirmi
bene nella pelle del mio quartiere, il peso dei guai di oggi lo
lascio tutto a terra. Il pomeriggio sa di avvisaglie, di dischi che
escono, di amici ritrovati. Lungo la strada mi sento rapire da quel
dolce stordimento del ritorno, la meravigliosa sensazione
d'estraneità che provo rientrando in camera mia, l'impalpabile e
denso processo per riabituarmi agli angoli, ai balconi, alle vie; poi
di nuovo giù, la veloce passata ai citofoni per scoprire chi mi ha
preceduto ed è già lì, al suo posto, in attesa di riprendere la
vita insieme a me. La nostra vita, che dopo i mesi d'esilio si
rimette insieme pezzo dopo pezzo, una bottega, un negoziante, un
percorso obbligato, un atteggiamento istintivo, nel ritorno in città
stanno occulte manie che riaffiorano inevitabili e deliziose. Ora
passo, vedi caso, proprio di fianco a una scuola, deserta ancora,
famelica dei suoi piccoli alunni, poi m'investe l'odore grato di un
prato innaffiato, che in città mi regalava improvvise oasi
d'ossigeno nell'aridità eccitante del cemento: è identico, qui come
lassù, adesso come allora. Questo sapore d'erba fresca, annacquata e
rasata, resta una delle sensazioni più violente, il sollievo più
prossimo alla felicità: chissà cosa contiene, cosa è rimasto
dentro; posso ricordare l'odore e poi, in casa, una pianta, un ficus,
la natura domestica, il benessere possibile, mio padre, maniche
arrotolate, che rientra. È allegro, soddisfatto mentre finge di
protestare, attacca a raccontare e non la smette più. Mia madre è
contenta mentre finge la noia, già mette i piatti in tavola, urla
qualcosa ai figli. Il sole s'abbassa verso il tramonto, ho ancora
sedici anni mentre guadagno l'ospedale, lascio la Vespa, salgo la
rampa. All'ingresso del reparto di neuro da alcune piante spuntano
fiori bianchi, nuovi: nascono anche qui, nel regno del dolore senza
più coscienza di sé.
Vulnerabile ... anche da un fiocco di neve: ma questa è Poesia!
RispondiEliminaGiacomo, Giosuè, Lugano... ah se poteste leggere queste righe...
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