Quando
ci hanno detto che mia madre dopo l'emorragia cerebrale aveva ancora
poche ore, che dovevamo prepararci a vederla evaporare, io non ho
imprecato, non ho protestato. Ho accettato quel che non accettare
non si poteva. Lei era confusa ma cosciente, ed era questa la cosa
straziante: prepararsi a perderla mentre sorrideva, così come era
successo con mio padre. Sono rimasto calmo, pur vivendo quell'epilogo
come una ingiustizia, meglio la botta improvvisa e basta, meglio lo
choc che questo stillicidio della razionalità. Lì ho capito che la
perdita dei due genitori è diversa: col padre muoiono le radici, con
la madre i ricordi. Andavo su in Vespa, all'ospedale, e mi tornava
nitido un sogno che, nel sonno, faccio spesso: ecco, sono ancora
nella casa dove ci hanno cresciuti, tutto è al suo posto, ma noi non
ci siamo. Non c'è nessuno. C'è solo la luce spettrale del sole che
trafigge i vetri e agita pulviscolo di morte. Vedevo tutto guidando e
questa volta ho visto, netto, preciso, il pavimento, chissà perché.
Già adesso, non saprei più raffigurarmelo, invece in quel breve
viaggio io ci camminavo sopra. E mi saliva un bisogno atroce di
ascoltare le canzoni di quegli anni lì. Di rifugiarmi in quei mondi
in posizione fetale, e non lottare più e non aver più paura. Come
se l'intera vita mi stesse chiedendo il conto, franandomi addosso
tutta insieme. All'ospedale, un altro medico ha ridimensionato la
diagnosi, ci ha tranquillizzati nei limiti del possibile, e io ho
chiamato mio fratello e lui si è messo a bestemmiare a urlare come
se fosse stata quella la notizia fatale. Gli cedevano i nervi,
malediva la disperazione versata invano. Ormai era fatta, avevamo
sperimentato una morte che non c'era. Dopodiché, per tirarmi su io
ho fatto l'unica cosa che bene o male mi riesce di fare. Scrivere,
raccontare. E poi sono arrivate le reazioni, ed io a questo punto un
ringraziamento lo devo, lo voglio fare a tutti quelli che mi hanno
espresso il loro sostegno con una frase, un cuore, una immagine, in
un momento di sbando. Gente fraterna, che ti dice prendo la macchina
e ti raggiungo. Gente commovente, che va in chiesa, accende un lumino
e te lo manda in foto. Gente che ti scrive venti volte in un'ora,
anche per dir niente, ma lo fa. Che ti telefona per dirti eccomi sono
qui. Gente così, che ti fa sentire vicino quando non hai via
d'uscita, che si scomoda, si spende, ciascuno a suo modo, come vuole,
come può, ma c'è e tampona baratri che neppure sa, ma intuisce. La
mia, la nostra vita è cambiata in un colpo, non sarà più come
prima, sarà ancora più dura. Siamo abituati alle tragedie, e mai
come adesso trova un senso questo mio scrivere per chi, come me, è
abbonato alla fatica del soffrire. Ma anche solo una faccia dipinta,
si dice sempre che è roba arida e invece non è vero, pure questo è
conforto: raggiunge chi aspetta in un reparto d'urgenza. Porto tutto con me, non dimentico niente. Io non
piango mai per paura o per rabbia, piango per tenerezza e così è
stato.
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