La legge
sull'obbligatorietà dei vaccini è una pistola scarica: sieri
ridotti da 12 a 10, sanzioni pecuniarie ridotte, nessuna privazione
della potestà genitoriale; lo Stato, al solito, auspica, consiglia,
confida. Maledetto Paese, maledetta società manicomiale, maledetta
politica di calabraghe, poi hanno il coraggio di stramaledire una
Thatcher di ferro. Per forza, qui usano le soluzioni emollienti,
malleabili, duttili, regna il compromesso anche quando ne va della
vita dei più piccoli. A che serve una legge così, se non a sancire
la vittoria dei dieci o quarantamila mascalzoni di Pesaro, arringati
da cialtroni anche peggio di loro? Doveva essere una norma drastica,
per tutelare l'immunità di gregge, è diventata una prescrizione
teorica, per la quale chi rifiuta una cosa indiscutibile come un
vaccino non rischia praticamente niente. Ecco, moltiplicate questo
caso per settant'anni di storia e otterrete la Repubblica Italiana,
fondata sul qui lo dico e qui lo nego: è l'unico Paese dove tutto è
“severamente vietato”, però le leggi cominciano con il capitolo:
deroghe, e alla fine l'unica deroga autentica è l'assunto che si
voleva introdurre. Su questi presupposti, non rinunciano a
regolamentare tutto, dall'omicidio stradale al femminicidio ad ogni
forma stragistica, tutte neutralizzate via patteggiamento, previa
perizia che definisce “depresso” il criminale, per arrivare ai
dettagli più privati e più demenziali. Morbida lex, sed lex: il
vaccino è obbligatorio, però “non asageriamo”, come diceva
Carlo Dapporto nella pubblicità della Pasta del Capitano. E, a forza
di non asagerare, ciascuno fa quel cazzo che gli pare. Alla farsa non
sfuggono quelli che corrono ai concorsi, all'ultimo si presentano in
quarantamila per duecento posti da infermiere: e lo sanno che la metà
sono per le minoranze etniche, ormai in maggioranza assoluta, e
l'altra metà per le minoranze partitiche, quanto a dire cento
raccomandati più cento. Contenti quelli che si presentano...
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