A me non interessa chi
vive di squallore: chi m'importa sei tu. Perché ti so da solo,
proprio come son io se un amico non viene, non mi trascina via dalla
noia che ammala, che sempre più mi scava. Sì, io ti so da solo a
sgranare le sere, il filo di un'abat-jour dalla trapunta del
tramonto, la quiete della stanza; stille di radio e sudore. E intanto
passa l'estate, e allora io voglio essere quello che c'è per te,
appuntamento discreto, consolazione scritta. Voglio essere nel tuo
morire umile, nella coscienza stanca, voglio esser pretesto,
distrazione affettuosa, il letto che riposa, la compagnia che osa. L'ultima parola prima del fatalismo. Se
riesco. Ci provo. Con tutto me stesso insisto, oggi più di allora
perché nient'altro mi rimane che la mia illusione, questa idea di
esistere in chi mi cerca. Non è il mio posto là dove le cose
succedono, dove s'intrecciano compromessi e occasioni, dove
l'oscenità si compiace di sé. Io conosco la voce del silenzio, i
cerchi di solitudine che stordiscono e drogano, io sono quei cerchi e
quel richiamo ostinato, sono la solitudine che non guarisce mai. Solo
questo ho da darti, ma di niente di meno m'accontento. Se penso che
ci sei, ancora mi siederò qui a raccontarti quello che senti, perché
è quello che sento. Perché noi ci capiamo, condividiamo la colpa di una fragilità. Specie adesso, che la mia storia è all'epilogo,
io voglio nutrirmi del tuo abbandono, delle sconfitte se vuoi,
dell'amore che vuoi e che non sfoghi, ostinato cane che ti viene a
trovare e sai che arriva, si siede vicino, sta fin che decidi,
sbiadisce nella sera, non chiederà di più.
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