“Domani è il mio
compleanno e non voglio fare niente, voglio essere felice” dicevo a
mia moglie in modo un po' straziante, un po' fantozziano. E invece
mi levo al mattino ed è morto Paolo Villaggio ed è chiaro che ci
scrivo sopra. Che impressione, però: io di Fantozzi conosco a
memoria ogni singola riga, posso proprio dire di esserci cresciuto,
li ho letti e riletti talmente tante volte quei libri da esserne
diventato, senza accorgermene, un esegeta. Il primo me lo regalò mia madre che avevo 11 anni, lei non voleva “Perché
non sono letture per ragazzi” ma io insistevo e alla fine cedette,
in un'edicola di via Pacini, ricordo ancora la lunga passeggiata fino
a via Ampére e dì lì fin dentro Città Studi coi suoi viali
alberati, mio fratello per mano. E adesso, più di 40 anni dopo, sono qui a scrivere della
scomparsa di uno che letteralmente mi ha nutrito e la
cosa non mi piace per niente: lo so che è retorico, scontato fin che
volete, ma è come mettere uno strato di marmo in più su
quel ragazzino, per giunta il giorno del suo compleanno. Scrivevo
di Fantozzi e in sottofondo andavano i trilli, i cicalini di chi si
ricordava di me (ringrazio tutti a partire da mia madre: “Ma che
foto hai messo? Sembri una statua di gesso”), ed io avrei dovuto
essere felice ma non lo ero per niente, mi prendeva una brutta
malinconia, fragile, spietata come un'avvisaglia.
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