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CERCAVO




D’un tratto sai che se ne sta andando qualcuno, ti rassegni ma quando se n’è andato scopri che non eri pronto. E a distanza d'anni non smetti quella sensazione di abbandono, che rasenta il tradimento. Io me la cullo ancora certe notti, quando non dormo, quella mia amica condannata ad essere “particolare”. Maria Pia Colonna è stata la mia istitutrice quando facevo servizio civile, è quella che mi ha domato. Sottoponendomi a prove da “ufficiale e gentiluomo”, mezz’ora a lavare i cinquecento piatti della comunità in una vasca fumante e di colpo via, dentro la ghiacciaia a scaricare il pesce, senza un perché, senza una spiegazione e poi ancora all’inferno fumante. Ero entrato in villa da ribelle e come tale venivo tenuto d’occhio: l’ultimo degli obiettori, il primo della lista. Ma Pia aveva visto qualcosa, che neppure io sapevo. Lentamente allentava la pressione, lentamente mi comprometteva, mai con tenerezza: piglia il coltello e impara a nuotare. Non c’è cosa che non mi abbia fatto fare Pia in quell’anno: il barista, lo sguattero, l’educatore, l’autista, il facchino, lo sturacessi, lo psicologo, il cane da guardia, il burocrate, l’accompagnatore e inventatevi quello che altro volete state pur certi che io in quell’anno l’ho fatto. Una volta mi buttò giù dal letto alle 3 per ammazzare un ratto enorme, che soggiornava in salotto. “Con duecento persone in casa proprio a me dovevi rompere i coglioni, mi pareva”. E la bastarda ghignava, ghignava sul suo trono.
Pia capiva con l’esperienza e con l’intuito a chi poter chiedere di più. Certe ragazzine a rischio, ero il solo a poterle, anzi doverle, frequentare. Lei ne ha salvate più d’una, ne ha adottate diverse, Teresa in particolare, che era una ragazzina esplosiva, e non posso dire altro. Dopo quattro mesi di “ufficiale e gentiluomo” ero passato dalla parte degli ufficiali, un po’ meno obiettore, un po’ più comunitario e quando arrivavano le scout, che venivano solo per divertirsi e per conoscere gli obiettori, pretendevo sempre la più carina come aiutante. Così scoprivo di poter fare cose che mai avrei sospettato. Così crescevo, con la severissima nonviolenza di quella curiosa, feroce pacifista, in guerra contro il mondo, contro un corpo che non c'era, e che non aveva mai fatto l'amore. Io posso dire, adesso, che uno dei miei momenti più adulti si ripeteva ogni sera, più di vent'anni fa, quand'ero un ventiseienne con la testolina da adolescente ritardato, tutto ribellioni e fascinazioni da improbabile rockstar. Ma ogni notte, verso le tre, io prendevo quel minuscolo corpo straziato e, come la figlia che non ho mai avuto, la portavo in braccio fino al letto. Le scioglievo più delicatamente che potevo le scarpe, le sistemavo una coperta leggera addosso. “Ti serve qualcosa?”. “No, va' pure”. Io lì ho sentito l'amore, ho conosciuto l'amore.
Così io cambiavo, restando legato, a modo mio, senza doverne dipendere, dalla comunità. Pia aveva capito anche questo, che non mi si poteva chiedere un impegno militante, solo lasciandomi libero di fuggire e tornare, ogni tanto, come un animale eccitato da un misterioso richiamo, io avrei dato il meglio.
Dopo di me, ha svezzato mio fratello. Stesso approccio, stessi risultati. Adesso non ci torniamo più, non ci sono mai piaciuti gli ambienti soffocanti, da setta, finché ci stai dentro ti ci adegui pure ma ti basta uscirne fuori, respirare e senti tutto il peso di quell'aria viziata. Però, ci piaccia o no, noi siamo anche quelli che eravamo lì dentro, e quell'anno di esperienza così viscerale, non lo perderemo più. Non vogliamo perderlo. 
Sì, certe volte mi ci riaddormento ancora. Immagino di essere ancora lì, a dare il meglio di me. A prendere ordini dalla mia regina sul girello. Scriveva con una calligrafia da amanuense Pia, tutta svolazzi ed arazzi e arabeschi. Quelle sua dita di biscotto, le teneva insieme una forza immensa. Prendeva il sole in costume, sull’attico della villa. E diceva cose pazzesche come “Voi maschi non sapete guidare perché guidate col cazzo!”. Dal 1972 gestiva quelle furie scatenate che sono gli obiettori quando entrano, domandoli tutti, a decine ogni anno: entravano leoni e uscivano agnelli, dopo esser passati sotto quella mezza cartuccia di donna alta neanche un metro e mezzo. Quando entrai, avevo orrore dei loro corpi negati, scarabocchiati, capricci di una natura crudele. Quando sono uscito, non vedevo più corpi, solo anime. Non m'importa se suona patetico: chi ci è passato, lo sa. 
Pia sapeva. Sapeva che io appena chiusa la sua porta, dopo l’ultimo “buonanotte” fuggivo, a notte fonda, portandomi dietro tutti i disperati, spedizioni randagie tra obiettori e qualche carrozzina, che non si sapeva quando e se saremmo tornati, e spesso tornavamo all’alba giusto in tempo per aprire il bar, che spettava a me. Quell’anno ho perso dodici chili, bevuto l’impossibile, fumato due pacchetti al giorno a orario continuato, la prima alle 7 di mattina, l’ultima alle 4 di notte, scopato più che potevo e Pia sapeva tutto, vedeva tutto ma ormai si fidava: quando sono uscito dalla Comunità parevo un tossico, sono stato un anno con la febbre, perché non avevo più difese immunitarie, il fisico era stremato. Ma finché ho lavorato dentro, mai neanche un raffreddore. Mai rifiutato un impegno. Mai finiti i miei giorni di licenza. Così si doma un cavallo selvaggio. 
Pia era una invalida. Artrite reumatoide devastante. Nata senza le braccia, le mani attaccate da una genetica sbronza. Si muoveva su un girello con le rotelline e quando proprio ci faceva incazzare la “centrifugavamo” come una trottola. Ricorderò sempre un dialogo fra i più affettuosi con l’obiettore Germano, di San Benedetto: “Perché non mi fai andare agli allenamenti, focomelica ‘bbastarda, puttana Colonna!”. “Bastardo sei tu e tua sorella!”.
Vita da pirata. Anche la malattia, l’ha vissuta da Pia. Non un lamento. Mai un cedimento. È rimasta in braccio alla morte decine di volte, con le flebo attaccate dovunque, in agonia e ogni volta ne rotolava fuori. Tutti pronti a darle l’olio santo e lei di colpo rifioriva, tornava a organizzare, combattere, decidere. A domare obiettori, con quel sorriso sfottente e pieno d'amore. 
È morta da anni Pia, appena un attimo fa. Rivivo la sua immobilità. Lei che non ha conosciuto la felicità, ma si è sempre comportata come fosse felice, e con quelle braccia di biscotto ha spalancato la felicità degli altri. Quanti altri. Pia era il più pirata che abbia conosciuto. La villa è enorme, da quasi 50 anni la gente ci passa, ci vive, ci muore ma senza quel pirata di un metro e mezzo scarso è molto più vuota. Terribilmente vuota. E terribilmente pieno è il cimitero se ci vado a trovarla. Cimitero di campagna dove trovo anche altre persone, non sapevo riposassero lì ma, a pensarci bene, dove altrimenti visto che la loro casa stava a pochi chilometri? Eccoli, ci sono tutti e per ciascuno un ricordo; straziante, per lo più. Chiara pesava un quintale e muoveva una falange, solo l'ultima falange del dito mignolo di una mano e bisognava metterle la cannuccia in bocca, bisognava “fumarle” la sigaretta dopo avergliela accesa. E una volta mi cadde addosso, non ricordo come fu, ma non riuscivo a sollevarmi e lei imprecava e piangeva, disperata di vergogna. E mi diceva “Ma tu pensi che io potrò mai trovare l'amore?”, e io non ricordo come facessi a rispondere. E una volta la portammo dai parenti a Grottazzolina, col furgone, e lei rideva felice ma arrivati che fummo qualcuno ci aprì la vide e fece una faccia, “Cosa sei venuta a fare?”, e subito richiuse. E lei piangeva mentre tornavamo e non lo so che m'inventai per farla ridere.
Hanno attraversato la mia vita quei volti che mi fissavano dalle lapidi, un anno di vita intensa e importante spesa nel servizio civile, obiettore senza ideologia, forse senza motivo. Ma cercavo, e trovai quel che cercavo. Storie durissime, terribili le loro, eppure sorridono in quelle foto; Pia Colonna, che da giovane laureato di burro mi fece diventare un uomo, è una di quelle presenze che mi porto dentro, che ho amato come una madre: e mi fissava ancora, con l'aria ironica che mascherava l'affetto. Io di quell'anno non scorderò niente, né la fatica, né il dolore condiviso, e neppure la libertà. Perché in quel luogo a volte così duro, io ero libero e come un pirata vivevo, di giorno, di notte. Ho esagerato in tutto, quell'anno, ho vissuto fuori dalle convenzioni sociali, in una dimensione quasi rovesciata, ma coerente con quello che giorno per giorno diventavo: io mi trasformavo, e qualcosa di quel ragazzo sopravvive, nella nostalgia, nella consapevolezza: per una carrozzina, per chi la manovra, un metro può essere un chilometro e uno scalino una montagna. Nel primo pomeriggio ronzavano gli insetti, e il sole asciugava i miei ricordi: solo in un cimitero può esserci un silenzio così assoluto. Com'è distante la pornografia del mondo qui dentro, a parlare con i morti. Ma nemmeno loro sanno spiegarmi a che è servita quella non vita che per ogni istante li schiacciò, e se gli propongo una soluzione, la felicità che sta dentro al dolore, la missione, il Dio che dopo premia, mi guardano dalle lapidi e fanno una smorfia, piantala di dire cazzate almeno adesso.
Da allora io non ho più cercato spiegazioni. Dopo che è morto mio padre, dilaniato da se stesso, d'accordo, ma non meno amputato pezzo a pezzo da una sanità violenta, ho smesso di cercare del tutto.

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