Questa foto, ricevuta
proditoriamente da un amico e che ho subito riproposto in modo
autoironico, in realtà nasconde una storia o meglio ha riacceso una
storia in me. Quella della mia vita. Nel 1994, alla vigilia dei 30
anni, mi operai, per ragioni più sanitarie che estetiche: quella
pinna che mi portavo appresso al posto del naso era rotta in più
punti e non respiravo più. Ma respiravo poco e male anche prima, in
un certo senso: siccome io ero un reazionario, e non capivo niente di
valori quali la tolleranza e il rispetto, al liceo mi chiamavano
Picchio, Pippo Franco, Battiato, eccetera; giravano argute prese in
giro, divertenti paradossi e spiritose caricature di me impiccato per
il naso, che deliziavano anche alcuni professori marxisti. Nessuno mi
ha mai difeso, i miei pianti e le mie insicurezze me li sono dovuti
sciroppare (e custodire) da solo e non posso dimenticare le
contorsioni del collo per scrutarmi di profilo allo specchio. Ma era
giusto, io non ero un militante, non andavo in assemblea in aula
magna a dire che andavano capite le ragioni delle Brigate Rosse, e il
mio naso era la mia Nemesi. Sai cosa vuol dire una prof che di punto
in bianco ti dice: Picchio, zitto, e tutta la classe scoppia a
ridere? Non hai difese, e non ti passa più. Ma me lo meritavo, i
miei erano poveracci e non leggevano Panorama, l'Espresso e Lotta
Continua. Impiccatelo per il naso. Quei gavettoni degli insegnanti, e
dei compagni, erano più pesanti che mai: i docenti democratici
facevano discretamente pesare, io lo sentivo benissimo, che mio padre
era un borghese piccolo piccolo e mia madre una casalinga. Me lo
facevano capire in mille modi e il più crudele era dire che ero
deforme per il naso. Era la verità: ma non è detto che andasse
detto. Io non avevo più un nome, nè una dignità. Quanto ai
compagni, non c'era niente di affettuoso, di scherzoso in loro: al
contrario, infierivano sapendo di essere crudeli. Gli ambienti
scolastici, si sa, sono tra i più carogna della vita e solo i
cialtroni possono pretendere di umanizzarli e di renderli paritari:
la scuola è la prima palestra della vita, e se nella vita vince chi
è più ammanicato e spregiudicato, in classe vince il più bello e
il più cattivo, se uno non sa o non può difendersi, è la fine (e
mi vergogno di avere a mia volta fatto soffrire altra gente, per la
viltà del conformismo, forse, chissà, anche per una miserabile
quanto improbabile rivalsa). Io da quella accusa, essere deforme a
causa del mio naso, non potevo difendermi, e non avevo abbastanza
malizia per ostentare l'indifferenza della sicurezza. Non ce l'hai a
quindici, diciassette anni. Non ce l'hai neanche a trenta. Quando
infine mi operai, e dopo quindici giorni (d'inferno, nel 1994 non era
come adesso) mi sbendarono, io mi guardai allo specchio e mi venne da
pensare: questo non sono io, se Dio vuole è finita. Pensiero più
triste non so immaginare, doversi rinnegare per poter rinascere.
Ormai ero lontano da tutto: dalla mia età, dal mio rimpianto, dalla
mia città. Per anni, per tutti i miei anni migliori, io non ho avuto
una possibilità con le ragazze. Mi mandavano avanti, perché ci
sapevo fare, ma il mio compito finiva lì. I frutti li raccoglievano
gli altri, io ero Picchio e basta. Crescendo, diventando sempre più chi sono, il diverso che sono, avrei potuto ripagarmi di quegli smacchi; potrei anche adesso, in effetti: ma non mi serve più, non è più tempo di rivincite. Io sono il padre di me stesso e un padre conosce il figlio.
Quelle antiche offese ancora bruciano, perché al ragazzo che ero fu
ingiustamente negata ogni ombra di felicità.
Commenti
Posta un commento