Non importa quanto
possano girare i miei pezzi, quanto siano letti, discussi, condivisi:
è la soddisfazione di un attimo, mentre il malessere è di una vita.
Non ci sarà mai risultato in grado di guarirmi, io lo so, e mentre
scorgo il lato patetico di ogni cosa, i giorni sfilano implacabili.
Questa sensazione di non vincere mai, io la frequento. Questa
condizione di inseguitore, di battuto, di rassegnato, io la abito. Ho
imparato a non spiegarla più, l'anima che ho la indosso e basta, e
neppure posso fare molto per accomodarla. E' una camicia di forza che
sta dentro: raramente la sento confortevole, più spesso è piena di
spine che torturano. Come è lontano tutto, mentre ascolto quelle
fitte! E non ricordo un'ora in cui la mia condizione, il male che
sono, mi abbia lasciato: mai, neppure nei momenti d'incoscienza,
d'allegria forzata, di effimero successo, di voglia di reagire.
Costantemente io mi sono sentito macigno per me stesso, e i miei
passi mai sono suonati lievi. I miei passi che hanno scavato la notte
senza una ragione, senza una speranza. Adesso non provo più a
correggere il mio male, neppure lo curo, perché ho paura di
perdermi; di non riconoscermi, smarrirmi, e sparire. Sono quello che
sento e che scrivo, e non c'è altro che io possa fare, non c'è
altro che io possa essere. Vorrei una luce, ogni tanto, ma so che
sarebbe un inganno: la stanchezza di esistere non dà tregua, ogni
consapevolezza la eccita, ogni presa d'atto la rinfocola. Perfino
ogni piccolo trionfo consuma, lascia gorghi più fondi. Vivere
ammala, uccide; vivere sfinisce, almeno me. Non ti chiedo di capire,
non cerco il tuo conforto: è solo che, ogni tanto, la solitudine
schiaccia e il tempo è un baratro che non finisce, seppure è
finito: non c'è domani, solo un tornare inesorabile a chi sono, alla
mia angoscia accettata, quieta al malessere dove mi specchio e,
ritrovandomi, sento disperdermi.
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