Quello che non si pensa,
che non si sa degli sfollati dopo un terremoto, è che non guariranno
mai. Perché non c'è niente di più terribile che strapparli alla
loro vita, il trauma è troppo grande, qualcosa che ti cambia e
quando sei cambiato non ti ritrovi più nella realtà che ti resta,
fosse pure ricostruita pezzo a pezzo. Tutto attorno a te si è
sfaldato e c'è un momento che decide tutto: quando lasci, parti, vai
via, quando chiudi per l'ultima volta la vita dietro di te. A quel
punto muori, e le tue resurrezioni saranno solo pallide repliche di
una esistenza che non hai avuto più. Sei uno che ha passato
l'indicibile, e l'indicibile non si racconta: nessuno può capirlo.
Sei uno che è precipitato in fondo al male, e i segni che porta
addosso, dentro, nei suoi sorrisi, nei suoi gesti nessuna beatitudine
potrà lavarli via. Sei la caduta del tempo di Cioran, l'esperienza
del dolore in Gombrowicz, l'abisso dello sconforto da Leopardi, sei
la fine cantata da Camus, e tanto altro ancora che neppure tu
conosci. Sei un addio vivente, addio a te stesso, alle proiezioni di
te che tornerai a cercare: invano, sei l'inesausta ricerca di quel
che sei rimasto, e il rimpianto mai spento di ciò che saresti stato.
Sei un reduce, un sottovissuto che si sente in colpa di esserlo, come
ha chiarito una volta e per sempre Primo Levi. Sei un figlio di un
terremoto e il cataclisma può essere diverso, più o meno dilatato,
ma l'epilogo è lo stesso per tutti. Alienazione e quella saggezza
che non è salvezza, è solo rassegnazione. Ricordo il mio, di
terremoto, trentadue anni fa, il mio e quello di mio fratello e della
mia famiglia. I passi sbagliati di mio padre, la sfortuna che ci
piove sopra, tutto che va a rotoli, tutto che si disfa. Io non
dimenticherò l'ultima volta che chiudemmo la porta di una casa
rimasta intatta, ma demolita entro noi. Io non dimenticherò le
lacrime di mia madre, l'umiliazione di un padre che ci portava giù,
ai suoi luoghi nativi, dove ci aspettava un minialloggio da 40
metriquadri, poco più di un container, ed eravamo in quattro. Qui mi laureavo, sfidavo il giornalismo. E non
posso scordare lo sgomento di quella terra di nessuno in riva al
mare, dove la gente era ostile se non bandita, dove solo con gli
alberi si poteva parlare e così scoprivi che non basta il mistero di
ogni giorno, la creazione che si riflette in una nuova alba. Perché
l'uomo non è fatto per star solo, e non è fatto per vivere di
abbandono. Sedici anni così io ho combattuto, mai un Natale, mai un
aprile, e gli amici non capivano, mi davano del fallito gli amici,
perché non tornavo a Milano, ma noi avevamo solo il container. E più
raccontavo, più mi compativano. Non si può raccontare la fine del
futuro, un fratello che appassisce, una madre spenta come una candela
e un padre dalle cui tasche cadono bigliettini suicidi. Non si può
raccontare lo strazio di fingere un'altra estate, e sentirsi malati
di un male incurabile e immeritato. Poi mio padre ha saputo reagire,
ma quella vita l'ha presto ucciso. E di colpo avevo quarant'anni, mi
sposavo, ma sempre rincorrendo il me stesso che avevo perso. Mai una
possibilità, mai un soldo in tasca. Ancora è così, io sono un
vecchio figlio di un terremoto privatissimo ma non meno devastante e
non mi chiedo più cosa sarebbe stato se... Io adesso frequento il
dolore, e di quello ho fatto il mio mestiere. Raccolgo chi me lo affida, medico i vecchi amici e quelli che verranno. Capisco oltre le
parole, oltre il raccontare quegli occhi, ancora sgomenti, di chi non
può credere di essere venuto sulla terra per venirne sconvolto.
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