Quelli che han lì le
bestie e non le possono abbandonare li capisco, gli altri che dicono
sono nato qui la mia vita è qui e non se ne vogliono andare, proprio
non ce la faccio. In montagna. quando comincia a far freddo, fa
freddo davvero, subito, di colpo, non ci sono mezze misure e se la
prospettiva è marcire in mezzo alle rovine, mille volte meglio un
albergo sulla costa. Siamo d'accordo, c'è da staccarsi dai fantasmi
e fa male, ma restare ad agitarsi come uno spettro fra gli spettri
non risolve niente: davanti all'estrema ragione, bisogna privilegiare
una estrema razionalità. Non ha senso la retorica del sono nato qui
e qui morirò, non puoi costringere i tuoi figli a un inverno
all'addiaccio, non puoi pretendere che lo Stato, questa entità
invisibile, ti risolva il problema del passato e del futuro nel tempo
di un sogno. Si tratta di sei, sette mesi, non di una vita. Si tratta
di un inverno, e l'inverno conviene passarlo al caldo, serviti e
confortati dopo un dramma. Non mi permetterei di proporre queste
riflessioni se non ci fossi passato: il mio terremoto si chiama
sconfitta, io ero un ragazzo fortunato, in un quartiere che amavo
come una persona, col piccolo benessere che mi dava un padre piccolo
imprenditore, ma nel 1984 tutto andò in polvere e fumo: scelte
sbagliate, poi una rapina in piena regola, le banche che chiudono i
rubinetti, anche allora il terremoto durò un attimo e, dopo, solo la
scelta obbligata di abbandonare tutto. Io lasciai Milano e non per
sette mesi. E la lasciai non per un albergo ma un inferno sul mare,
un quartiere litoraneo abbandonato a se stesso, regno di viados e
pregiudicati, molti mafiosi a confino. Qui, in un bilocale da 44
metriquadri, restai sedici anni, ed eravamo in quattro. Riuscii non
so come a laurearmi e ad intraprendere il mestiere di cronista: i
malamenti, miei vicini di casa, al mattino li incontravo in Tribunale
e la sera minacciavano di ammazzarmi, e se non avessi avuto un amico
più malamente di loro che mi proteggeva, adesso non sarei qui a
raccontarla: ero esaltato, non mi fermavo neanche davanti a una
pistola. Sedici anni, e Milano vola via. Gli amici non capiscono, mi
ripetono che sono un fallito a non tornare, ma loro non lo sanno
quanto è costato non essere là, spegnere il mio futuro a vent'anni; non sospettano che c'era a malapena
il pane e per anni ho indossato maglioni fatti ai ferri. Loro non lo
sapevano cosa provavo quando, ogni settembre, li vedevo andare via,
volare come rondini di ritorno verso la vita. E ho visto ogni orrore,
e ho raccontato ogni dolore. Ho dovuto stravolgere, violentare me
stesso per sopravvivere, e ancora non sono sicuro d'esserci riuscito.
Sedici anni e la mia Milano non c'è più, solo in me sopravvive,
morirà con me. Adesso è un'altra metropoli, un'altra storia. un
altro miraggio. Ma non smette di chiamarmi ogni settembre, ed io non
posso rispondere. Cari amici, nessuno come me sa cosa vuol dire un
terremoto, ma restare lì dove non esistete più, non ha senso. Fate
passare l'inverno, e dopo potrete rinascere. Non ostinatevi nel
vittimismo che prende il posto della sciagura. Parola di uno che non
si è mai scrollato di dosso i calcinacci della vita.
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