Perché dopo la furia del
terremoto, vedendo la gente che vaga ferita e scioccata urlando e
chiamando chi non trova più, viene solo da mettersi a piangere senza
ritegno? Forse perché non c'è nessuno con cui prendersela, forse
perché ci si sente fragili tra i fragili senza una ragione e senza
una salvezza. Sì, d'accordo, le polemiche sui soccorsi, sulla
ricostruzione, sulla prevedibilità pretesa dai matti e da Sabina
Guzzanti, ma davanti a un posto raso al suolo, senza preavviso, senza
presupposto, non resta che piangere. Piangere e constatare il vuoto
di fronte alle coincidenze crudeli e allucinanti, all'enigma di chi
per un attimo si salva e chi per un attimo è condannato, alla
fondamentale, totale ingiustizia della vita, che è aleatoria, che è
cieca. C'è chi prega, perché sperare resta un bisogno innato
nell'uomo, e chi maledice, ma alla fine constati questi tuoi simili
scagliati nell'abisso e davvero li senti fratelli, anche se non li
conosci, anche se passando in uno di quei paesi in un giorno di sole
avresti commentato, ma come fanno a vivere qui questi dimenticati da
Dio?
Ma poi ti accorgi che
quei villaggi hanno un'anima e la trovi quando la rendono e
quell'anima è fatta anche del tuo passaggio lontano, distratto.
Poi ti accorgi che il dolore lega cui suoi fili spinati
misteriosi e atroci, ti accorgi che non riesci a frenare la
commozione, è contagiosa la disperazione, è infettiva e provoca
inaspettati fremiti di un sentimento che non è solidarietà, va
oltre, è una fratellanza impotente, distante, ma non meno
sanguinante.
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