Vi accorgerete presto che
legalizzare la cannabis è perfettamente irrilevante per le mafie e
non intaccherà il narcotraffico: solo chi non conosce le mafie o ha
la coda di paglia, può sostenere l'utilità di una misura del
genere. Dove invece è decisiva, la partita, è sulla libertà
personale, che dovrebbe essere sacra: perché deve essere lo Stato a
decidere di che morte debbo morire? Qui si coglie una contraddizione
clamorosa nel perbenismo politicamente corretto: sì alla cannabis,
ma lotta dura a chi fuma sigarette. No, io lascerei piena e generale
libertà di fumo, e persino di altre sostanze, col corollario,
beninteso, che eventuali danni arrecati ad altri verranno puniti in
modo drastico, perché stonarsi non può essere considerata una
attenuante, peggio, una scriminante come oggi succede. Io vorrei uno
Stato che si intromette il meno possibile, ma quando deve farlo è
inflessibile. Invece è invalso l'andazzo contrario, un ingerirsi in
tutto, sempre più soffocante, e per contro un lassismo sconcertante,
vergognoso e del tutto antidemocratico al momento di far valere le
garanzie. Non ritengo nemmeno che spetti allo Stato informare
istituzionalmente circa gli effetti delle sostanze, cannabis inclusa:
che spappoli il cervello, e alla svelta, è stato ampiamente
dimostrato, le pubblicità progresso sono demenziali (basti vedere
quelle dell'alcool e della guida pericolosa, capolavori di
velleitarismo patetico) e nessuno può invocare la sconoscenza di
effetti che sono chiari a tutti. Non tocca al welfare buttare altre
risorse in questo lavacro istituzionale. Non accetto neppure la
pratica, ormai invalsa, per la quale una figura nota, una rockstar,
un opinionista, deve offrire di sé una proiezione sana, morigerata
(e falsa): io a Sting preferisco Keith Richards, e non mi sognerei
mai di incolparlo per i miei eccessi. Questo è essere vigliacchi, è
delegare a un altro la responsabilità delle proprie scelte. Ma
quello che meno di tutto mi convince, è istituzionalizzare la
cannabis, renderla "di Stato": come se lo Stato medico,
psicologo, pedagogo e salutista racchiudesse in sé tutte le
competenze e le saggezze utili a controllare una scelta. Balle: lo
Stato è una nebulosa burocratica, punto e basta, e come tale
interviene a danni fatti, sempre: le convinzioni sulla sua onniscenza
restano in eterna attesa di verifica, mentre ad essere confermati
sono i suoi errori predittivi e le conseguenti ricette autoritarie,
il perenne rosicchiare spazio alla sfera personale (ci pensasse bene
chi vede dappertutto i fantasmi del liberismo, riducendo, da
ignorante, una formula alla mera dimensione economica che se mai ne è
l'aspetto meno rilevante e che, peraltro, neppure in quella trova
riscontro, se è vero come è vero che il peso dello Stato, più o
meno "sociale", è in ulteriore crescita, come testimoniato
da un debito pubblico che non si stanca di aumentare). Lo Stato non
siamo "noi", è fatto di impiegati, funzionari, dirigenti,
nominati integralmente dai partiti, soggetti che a questi rispondono,
con scarsissima esperienza sul campo (su ogni campo), e proiettati
più verso il bene particolare o famigliare che su quello collettivo:
con l'aggravante che le strategie, le misure, le direzioni che
vincolano il personale pubblico sono funzione delle convenienze e
delle contingenze politiche più che di un sapere neutro, scientifico
e disinteressato. E' da ingenui pensare che avidità, egoismo,
carrierismi siano peculiari del settore privato e del tutto assenti,
invece, in quello pubblico: in verità, la corruzione è propria del pubblico settore, alimentata da una sostanziale impunità del
personale, specie nelle zone alte dell'organigramma (ma non solo:
stiamo ancora a celebrare come una conquista epocale la mera
sospensione dei cosiddetti furbetti dei cartellini, i quali dopo
qualche settimana vengono regolarmente reintegrati dietro semplice
promessa di non farlo più: se per caso uno ci lascia le penne, grida
alla tortura e sua moglie viene ricevuta in televisione come una
Madonna michelangiolesca).
La mitica prevenzione
statuale non serve e non si giustifica, ovvero si risolve in un
controllo sempre più pervasivo sulle scelte quotidiane e personali.
Anzi, siamo al punto che neppure lo Stato basta più, i singoli stati
si affidano a sovrastati, a sovrastrutture di sovrastrutture
burocratiche, come l'Unione Europea che puntualmente non sa difendere
i suoi cittadini ma sa come complicar loro la vita nei modi più
irragionevoli, pedanti, approssimativi, dispendiosi. Ecco, chiedere
libertà, in questo caso di cannabis, per poi farla ricadere sotto
l'ombrello pubblico, statale, è una contraddizione di stampo
moralistico che non capisco e non accetto. Neppure l'argomento che si
concentra sul gettito conseguente alla legalizzazione mi convince:
che lo Stato incassi non significa niente, va chiarito come e dove
vengano usate le conseguenti risorse, e comunque si tratta pur sempre
di una tassa, lo Stato non fa niente per niente e non eroga niente
per niente; quando distribuisce, d'altra parte, finisce sempre per
creare disparità perché privilegia determinate categorie a scapito
di altre. Non si può ridurre la questione in modo tanto rozzo,
gettito originario uguale ricchezza generale: non è mai stato così,
perché non funziona così. La verità è che siamo ancora
dannatamente hegeliani o posthegeliani, siamo roussoiani, siamo
gregari in eterno bisogno di un Leviatano: la libertà - di fumare,
di avvelenarci, di assumerci le conseguenze delle nostre opzioni - ci
fa orrore al punto che, a forza di delegarla, non sappiamo più
neppure distinguerla, percepirla. Ma nessuno sospetta, ed è un
candore che spaventa, il filo rosso che corre tra Hegel, Rousseau e i
totalitarismi del XX secolo.
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