Mi
guardo indietro e trovo un bambino solo, un ragazzo solo e poi un
uomo solo. Sempre solo. Uno che coglie lo strazio della tenerezza in
un oggetto umile, che vuole essere meglio di come è, che si sforza
di imitare modelli troppo distanti, creato apposta per gente che non
può sperare di più. Perché le cose, alla fine, sono come le
persone o forse sono le persone ad essere un po' come le cose.
Comunque uno che in vita sua ha praticato pochissima, quasi nessuna
vita “mondana” e quella poca a disagio come quando ci si sente
falsi, fuori posto, uno che non sa cosa siano gli impegni importanti,
non ha idea di come comportarsi in società, uno che si sente solo
dentro, anche quando è in mezzo alla gente, anche quando è lui il
protagonista: e appena può scappa via, torna a rintanarsi, per
ascoltare meglio quella pesantezza di piuma che non passa mai. Io il
gravare della solitudine posso vederlo, lo percepisco con densità
quasi fisica, la mia anima è fatta di solitudine come il mio corpo è
fatto d'acqua. È così per tutti? Così dicono, ma non tutti lo
capiscono o almeno lo accettano. Quanti ne conosco, che preferiscono
stordirsi d'impegni, che preferiscono qualsiasi compagnia, anche la
più sordida, la più sbagliata, a quella propria. Io non ho mai
fatto molto per combattere questa malattia. Ho sempre avuto necessità
di contatti, di stare in mezzo agli altri, il mio bisogno di esibirmi
in fondo è tutto qui. Ma sapendo bene che non ne sarei uscito, che
quella ferita di solitudine non avrebbe fatto altro che sanguinare di
più. Perché c'è una solitudine del prima, quando stai per
lanciarti e nessuno può capire. E ce n'è una del mentre, quando li
vedi ascoltarti, ti senti parlare, e sai che nessuno può capire. E
poi c'è la solitudine finale, quando tutti vanno via e tu resti in
compagnia di quello che hai appena fatto. Più solo di prima, perché
il ricordo in fondo è solitudine. Ed io, più sentivo l'istinto di
stare con gli altri e più riuscivo solo a stare da solo. Anche da
ragazzo le ore spese con me stesso, sul letto, un libro, la radio e
del cibo malsano superavano di molto quelle spese con gli amici.
Anche con loro, tranne rarissime eccezioni, non riuscivo mai ad
essere a mio agio, non sapevo essere me stesso, ero sconvolto da
troppe sollecitazioni che stravolgevano il mio carattere, timoroso di
scoprirmi, frustrato dal non impormi, avvertivo sempre la misura
della incomunicabilità, quel margine di distanza insanabile.
Sembravo essere l'unico a cogliere tutta la volgarità in uno
sguardo, una sola parola, una smorfia impercettibile. Ed ero
terrorizzato che la minima debolezza mi sfuggisse. “Che bravo
profiler che sei”, mi ha detto una volta un'amica che fa proprio
quel mestiere.
Ragazzo
solo e poi uomo solo. Sempre di più invecchiando. Perché sto
imparando a rinunciare, a tenere al guinzaglio i miei giorni, fatti
di solitudine, che non cerco più di spiegare. Era una fatica
allucinante, uno sforzo inutile che mi lasciava sempre la sgradevole
sensazione dell'imbarazzo: non c'è niente di più inspiegabile, e di
conseguenza incomprensibile, dei tuoi problemi. Sono diventato bravo
ad arginare, perfino a medicare quelli degli altri, che con me si
aprono spontaneamente; ma nel proporre i miei accidenti, andavo se
possibile peggiorato. E allora ho lasciato perdere.
Anche
quella di internet è una solitudine. Quei discorsi abortiti, quei
messaggi stentati non possono riempire i miei spaventosi vuoti. In
rete si agitano presenze assenti, gente che non incontrerò mai.
Credo di capirli anche solo da quelle poche frasi scritte, perfino un
messaggio è la spia della presunzione, l'aggressività,
l'insicurezza: lo stesso concetto muta radicalmente significato
appena combinando in modo diverso le sue componenti, le parole. Sì,
forse è vero, forse sono un bravo profiler. Ma non so come si
chiami, né se esista, sicuramente esiste, una scienza che studia il
carattere analizzando lo stile della scrittura, la sua struttura, la
sua espressività così come si verifica la calligrafia.
Sono
bravo a entrare in sintonia, perché ho l'istinto di cosa va e non va
fatto a seconda di chi ho davanti. Percepisco le sue onde, mi faccio
un percorso mentale. Ma solo con alcuni, con pochissimi riesco ad
accorciare davvero le distanze; ed è solo quando ci si vede
finalmente in faccia, quando ci si studia per la prima volta e ci si
lascia reciprocamente con l'impressione di noi, che le cose cambiano
irrevocabilmente. L'impegno che mi è capitato nella vita, scrivere,
raccontarmi e raccontare, mi ha poi portato ad essere un po' più
rintracciabile, appena appena fuori dall'anonimato. Questo a volte mi
garantisce non autorevolezza, ma solo la possibilità di una
presenza: chi vuole mi raggiunge, si confida. Io ascolto. La
comunicazione, essendo io una piccola voce cui si attribuisce licenza
di comunicare, di dire la sua, è spostata un poco a mio vantaggio.
Ed io sono preoccupato non della mia aggressività, che è una forma
di lealtà; ma della mia integrità, di poter essere degno di
fiducia. Perché chi mi cerca, lo fa per le cose che scrivo, per
quello che ha letto di me magari nel corso di anni. E io non voglio,
non posso tradirli.
Il
rapporto con chi mi segue. Hanno provato in tutti i modi a farmi
perdere quest'unico privilegio, ci si sono messi in tanti, anche
insospettabili, finti amici, finti sostenitori. Erano preoccupati di
quello che sapevo tirar fuori dalla persone, invidiavano questa mia
facoltà, che poi riposa tutta su un segreto che tale non è: quella
lealtà, appunto. Io non sono mai stato un giornalista da copertina,
e non mi sono mai percepito come tale. Non mi ha mai interessato
neppure essere considerato un giornalista, quanto uno che c'è, che
tiene compagnia, che all'occorrenza sa anche trasmettere qualche
informazione, ma non è quello l'importante. Ho sempre preferito
contagiare di emozione che di informazione. Ho sempre preferito
esserci. Non essere.
Ho
dovuto lottare, come un cane randagio, per difendere questo
privilegio che in realtà era un impegno. Se mi guardo indietro,
quanta gente che sarebbe stato meglio non incontrare affatto, meglio
perderla subito. E quanti sforzi per conservare la mia integrità.
Ero anche più solo di adesso, perché non c'è solitudine peggiore
di quella invasiva, e invadente, che ti obbliga a fare i conti con
presenze che tolgono, che soffocano. Che stancano. Che
immeschiniscono. Adesso tutti quei fantasmi li ho lasciati, e almeno
la mia solitudine è pura. La sfoglio nei messaggi, nelle lettere di
chi mi ha attraversato la vita e poi magari è scomparso. Quelle
parole mi parlano ancora, mi parlano sempre. Vorrei leggerle tutte,
una volta, ma ci vorrebbe un reading solo per quelle: sono tante...
Pagine di solitudine, che mi medica e mi ammala, mi fa male e mi
consola. La accetto, la accolgo, la difendo come parte di me. Di quel
bambino, poi ragazzo, poi uomo che sono sempre stato. Al quale è
rimasta una sola paura: non riuscire più credibile, suonare ipocrita
nelle sue parole. Discutibile certamente, odiato ci sono abituato,
compatito e irriso fin che si vuole. Ma falso no, questo mai.
Cambiato, io, no. La mia solitudine non lo merita, perché è sempre
lei, alla fine, che trionfa. Ed è sempre lei, alla fine, che paga.
Ammiro, ammetto con qualche invidia, chi riesce ad esprimere degli stati d'animo così complessi e universali con poche frasi di rara profondità. Grazie per esprime ciò che noi, meno dotati, riusciamo solo a provare!!
RispondiEliminaAmmiro, ammetto con un poco di invidia, chi, con poche frasi riesce a delineare concetti così profondi che noi, meno dotati, proviamo ma non riusciamo ad esprimere. Grazie
RispondiElimina