Incontro un parente che
non vedo da tanto: “Oggi c'è il sole, sono uscito”. Aspetta
l'una, poi passa a prendere il nipote da scuola e vanno a mangiare
dalla figlia “Perché oggi è la festa del papà, però a me non è
che mi vada tanto, ma ha insistito”. A parte questo, come se la
passa? Si arrangia, mi dice, traffica in casa, mette qualcosa a
scaldare “e poi c'è sempre qualcosa da fare, un elettrodomestico
che si rompe, una commissione, una spesa al supermercato”. Il
giorno bene o male scorre, la sera non passa mai: le quattro ore
dalle sette alle undici, dalla cena al dormire. “Quelle sono
tremende, la televisione non mi piace, ascolto un po' di musica con
le mie cassettine, ma la malinconia è feroce, non mi dà pace”.
Ora non vede l'ora che sia estate, “così almeno mi faccio una
girata, mi stanco e vado a dormire. Sempre se ci arrivo”. Se ci
arrivo, ripete di continuo: alla prossima estate, alla prossima tac,
al prossimo favore. Si è posto un limite: “La patente di mio
nipote, dopo basta, dopo posso anche togliermi dai coglioni perché
non servo più”. Lo guardo, lo ricordo giovane insieme a mio padre,
giovani padreterni che parevano invincibili. Oggi c'è il sole e c'è
la festa di san Giuseppe: “Ma a me non mi va, che cazzo c'è ancora
da festeggiare, sono vedovo, ho perso un figlio, io sono un tipo che
sta bene per conto suo”. Mi guarda lui, con occhi d'acqua, scuote
la testa sorridendo: “Ma la vita è questo, prima o poi tocca a tutti”. Sono
corso via, a bordo della Vespa ho raggiunto il mare, immobile,
immutabile. Mi sono sembrati peggio che vani, mi sono sembrati
assurdi tutti i miei sforzi, tutti gli sforzi del mondo. E il mare mi
ha svelato perché i vecchi li paragonano ai bambini. Non c'entra
niente la faccenda dei capricci, è che tornano fragili, ostinati
s'aggrappano a se stessi, alla solitudine piena di vuoti, che tiene
compagnia uccidendo.
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