Ci sono argomenti che è
meglio non toccare, perché sia già che come li tocchi ti fai male,
non importa se ci vai piano, non importa se non cerchi rogne, è
garantito che ti faranno dire ciò che non dici, pensare cosa non
pensi. Ma se non li tratto, se mi sottraggo al dovere di una
testimonianza, che giornalista sono? E allora dirò che la morte del
giovane Giulio Regeni chiama in causa il senso e i limiti di un
giornalismo sfuggito di mano. Regeni era a detta di tutti un ragazzo
brillante, ma invischiato in cose più grandi di lui, coinvolto a
tempo perso in un lavoro che non era il suo. Faceva il giornalista di
guerra in tutta la sua inesperienza e vulnerabilità, e c'era chi
glielo lasciava fare. Io non sono sicuro che fosse la cosa giusta.
Regeni denunciava la mancanza di diritti civili fino all'assenza di
tutela sul lavoro, tutela sindacale, ma scriveva da abusivo, come uno
che, in una terra pericolosa a fare altro, s'inoltra in ricerche
micidiali e poi pensa basti spedirle, pubblicarle con uno pseudonimo
per salvarsi. Il risultato lo ha sintetizzato in un tweet senza
appello Guido Olimpio: “L'omicidio di Giulio Regeni vi ricorda cosa
siano certi regimi arabi”. Con buona pace di chi li vede solo
quando fa comodo perché vede, a torto o a ragione, ammazzare uno che
considera affine, uno della stessa famiglia ideologica, e allora se
la prende con tutti tranne se stesso e le proprie illusioni
pericolose. Il risultato, in altri termini, è una spinosa crisi
internazionale, che in tutta la sua delicatezza è il meno rispetto
alla perdita violenta di un giovane brillante, sensibile, ma ingenuo.
Poteva essere tutelato? Gli avranno sconsigliato di compromettersi
fino alle estreme conseguenze, avranno tentato di dissuaderlo, di
richiamarlo indietro? Oppure bastava l'ambizione dello scoop, bastavano quelle
cronache che i giornalisti di mestiere non si sentivano più di
andare a scavare? Ecco, sono pronto ad essere frainteso, infamato: ma
io non insinuo che il Manifesto sia responsabile, non lascio
intendere che abbia approfittato della vicenda (anche se vorrei tanto non se ne approfitte adesso). No, io voglio
capire cosa sia o non sia successo, e voglio parlare di un problema
che mi pare evidente e con tutta evidenza rimosso e lo faccio da uomo di 50
anni che constata la morte violenta di uno che poteva essere suo
figlio e che gli pare lasciato allo sbaraglio, abbandonato a se stesso. Magari era scritto nel destino, ma io non sarei così sicuro
che giocare ai giornalisti in una zona critica sia la cosa migliore
da fare, da lasciar fare.
condivido, una cosa è fare il giornalista di guerra da professionista, cosa che non elimina i rischi, ma almeno è una scelta consapevole di un mestiere pericoloso, una cosa è farlo da dilettanti allo sbaraglio, infervorati dalla volontà di scoprire, magari con una certa baldanza giovanile che sa molto d'imprudenza.....mi viene in mente il caso Sgrena, finito con la morte tragica di un funzionario dello stato intervenuto per salvarla.....qui finirà in nulla, Al Sisi è il rimedio tragico e per ora non toccabile a una serie di politiche sbagliate e assurde in una regione del mondo ad altissima pericolosità, una polveriera innescata.....sono situazioni diverse, ma accumunate da una considerazione: l'occidente e certi suoi intellettuali non capiscono che il dissenso, la denuncia in nome della democrazia o di valori di libertà in certi frangenti sono una condanna a morte e che se scegli di appoggiarlo o di farla fai la stessa fine atroce di chi dissente e denuncia ieri in Cile, Argentina, Nicaragua....oggi Egitto, Iraq, Ucraina....e che speculare ex post e non ragionare ex ante sono esercizi d'irresponsabilità al limite della mala fede ....con rispetto per le morti, per tutte le vittime
RispondiEliminaDavide, Milano
Sono tutti Giulio, tutti col giovane che voleva cambiare il mondo. Però i loro figli, a farsi ammazzare, non ce li mandano.
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