Non avevo voglia di
tornare a casa e ho voltato la Vespa e l'ho puntata nel quartiere dove
ho ancora uno zio. E infatti eccolo, sotto casa, che discute con un
paio di coetanei. Mi ha riconosciuto, mi ha preso il braccio con
affetto: “Oh Massimo, mi fa piacere, stavo chiacchierando con
questi due vecchi, perché siamo tutti vecchi, che vuoi tiriamo l'ora
di cena”. Sorrideva, rideva, con tutte le sue macchie in testa, e
non gli ho chiesto dove fosse stato. Lo guardavo rendendomi conto di
come si può provare sollievo nel dolore, nella solitudine che è
l'atroce traguardo della vita. E mi pareva impossibile ricordandolo
sempre a metà, inconcepibile senza la donna che lui ha adorato, una
donna con cui spesso ho litigato perché sconfinava nella prepotenza. Ma una mattina di pochi anni fa si è
svegliata e non c'era più, un'ischemia l'aveva cancellata lasciando
il guscio vuoto. Li vedevo in giro, lui a spingerla in carrozzina, e
non avevo coraggio di fermarmi, estate dopo estate ma lei non moriva
e non poteva seguitare così e allora a un certo punto non c'era che
l'ospizio. Mio zio va a trovarla ogni giorno, la porta in giardino,
le scarta il gelato. Lei non lo riconosce, non ha coscienza di sé,
del gelato, non si rende conto di niente. Finché le medicine fanno
effetto, il capo crolla, lui la riporta in camera, torna a casa,
aspetta cena coi vicini, “i vecchi”. È durata due anni questa
vita appresso a una non vita, che ha finito di spegnersi pochi giorni
fa. Ed è stata la Provvidenza, ammesso che esista, a regalarle
ultime stagioni d'oblio dopo un inferno che nessun altro vivente ha
mai potuto scontare.
D'estate, al mattino mio
zio porta il nipote al mare, ma il nipote ha 13 anni, dice “Ciao
nonno” e sparisce, va a giocare a pallone e lui guarda fisso il
mare che gli ha portato via il figlio, guarda la tomba d'acqua.
Daniele era uno di quei ragazzi di cui si dice “è buono” per non
dire innamorato di una vita che l'ha tradito ogni giorno. E più la
vita lo tradiva e più la amava. Non ho mai visto nessuno sorridere
con tanta fiducia, tanta forza e tanta disperazione: me li ricordo i
suoi sfoghi, quando la madre non c'era, per non amareggiarla. Sempre
in punta di piedi, da bambino, da scolaro, se la maestra ordinava
“Fate un disegno” lui faceva un minuscolo fiorellino, sperduto in
un angolo nel deserto del foglio. Poi da adolescente, una mattina di
luglio ero a casa sua e di colpo ha avuto un fremito, come trapassato
da un fulmine, ha ruotato su se stesso ed è crollato sotto al tavolo
e la bocca era storta da una parte. Non riusciva a parlare, sua madre
che urlava. Da quel giorno le crisi si son fatte sempre più acute,
frequenti, inarginabili, una vita a cambiare farmaci ma dopo un po',
puntuale, l'assuefazione. Non era proprio epilessia, non c'era
schiuma, non perdeva conoscenza, la sentiva arrivare e allora andava
a nascondersi come un animale, nessuno ha mai capito, una via crucis
di cliniche, di luminari ma nessuno ha mai capito. Una volta vedemmo
un documentario sui casi limite, le sindromi che la scienza non
riusciva a spiegare, ci parve di veder affiorare per un attimo anche
lui. Anni prima erano stati in Africa, mio zio era un tecnico
dell'Italsider che aveva impiantato stabilimenti in Zaire, le
intraprese fallimentari del neocolonialismo commerciale, fallimentari
perché non potevi mettere gente nata povera, ma libera, in fonderia.
Uno spreco di miliardi, ma non per la politica ladra e visionaria,
ottima ad incassare perfino i frutti dei suoi fallimenti.
Nel 1974 stavano a
Kinshasa questi miei parenti, li chiamavamo al telefono, con
parsimonia, e mi facevo raccontare del match del secolo tra Muhammad
Ali e George Foreman e mia zia mi raccontava che il nome del
dittatore, Mobutu Sese Seko Kokonwenzo Wazabanga voleva dire “Il
gallo che non risparmia nessuna gallina”. Poi altri racconti
favolosi, terrificanti, l'Africa era ancora un pianeta selvaggio e
misterioso, l'agguato degli indigeni che già avevano sfoderato le
lance e tutti loro, inermi bianchi mediterranei, perdevano il
controllo dello sfintere, il potente ruggito del leone che pareva nel
giardino e invece magari stava a chilometri, ma meglio non rischiare,
il micidiale serpente settepassi che se ti morde fai sette passi e
muori, le mosche che nidificavano nel bucato steso che poi ti
infilavi e un giorno le larve si schiudevano, la pelle si crepava, il
corpo secerneva mosche come nei film dell'orrore. Allora qualcuno
volle dire che forse Daniele aveva preso qualcosa là, un morbo
terribile e sconosciuto. Una sera di luglio di dodici anni fa torna a
casa dal lavoro in agenzia immobiliare, manda giù una Coca-Cola e
dice vado a farmi una nuotata. Mezz'ora dopo mio zio telefonava con
una voce che non gli avevo mai sentito, dura, riarsa, una voce di
schegge di vetro, “Daniele è morto”. Non gli hanno fatto neppure
l'autopsia, il malore era chiaro. Sul giornale apparve la foto di mia
zia che urlava sul cadavere. Da allora ha sempre indossato i vestiti
del figlio e per dieci anni, fino all'ischemia, non ha saltato un
giorno al camposanto. Vicino a lui avevano messo la tomba di una
bambina, i genitori erano impazziti e avevano trasformato il loculo
in un giardino atroce straripante di fiori bianchi e rosa.
Io non lo so adesso
perché vi racconto queste cose, ma non ho nessun altro per
sciogliere il rovo di spine che mi sento in gola, punge tutta la mia
tenerezza. E quando mi sento così io vado al porto, spengo la Vespa,
ascolto una voce che non so, quella dei ricordi, dei fantasmi, non lo
so, ascolto la musica dell'acqua a sbattere dolce contro i
pescherecci che oscillano pigri e si sfiorano in una danza
d'incatenati bestioni, ascolto i gatti che passano tra le reti, tra
le bitte, i gabbiani che nel sole s'inseguono urlando. Fino a che
scoppio. Allora trovo la forza di tornare. Passo davanti alla
carcassa della barca decomposta, enorme, di un azzurro rugginoso e
scrostato, il costato putrefatto delle assi scoperte, la barca
dimenticata dagli uomini e dal mare e dal tempo, relitto di un
relitto, inutile perfino da rimuovere. Non so che nome avesse quando
fiera solcava il mare, ma so il nome che vorrei darle io adesso.
“Vita”.
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