Il papa Francesco torna
in un sud America piegato dalla recessione, ci va per affari interni,
a praticare diplomazia ecclesiastica, in funzione certamente della
tutela dei cristiani perseguitati ma anche a ribadire che la famiglia
per lui è solo quella tradizionale, blindata ad ogni prospettiva
diversa. Per dovere di firma e per inclinazione il pontefice non
manca di denunciare la miseria dei poveri. Dimentica però che i
poveri sudamericani, da Cuba alla Bolivia all'Ecuador al Venezuela
all'Argentina che cerca di risollevarsi voltando pagina si debbono
tutti allo sciagurato populismo socialista che ha ripreso piede e ha
moltiplicato i disperati. Non c'è paese sudamericano che non abbia
problemi giganteschi, qualcuno sull'orlo della bancarotta e toccherà,
come sempre, all'odiato capitalismo salvarsi. E verranno salvati,
così da potere scagliarsi ancora contro il maledetto liberismo,
senza mai fare ammenda dei propri errori. Il populismo di sinistra in
America Latina è una malattia insanabile, il mondo occidentale può
curarla, la medica, ma non la estirpa. E questo papa che non si
accorge o non si cura delle proprie contraddizioni nel suo piccolo la
alimenta, perché di quel populismo devastante è figlio e, adesso,
padre nobile, santo padre. Un padre che di diritti umani non parla
quando torna nel suo continente, li denuncia da Roma ma al cospetto
dei dittatori locali che farciscono le galere di innocenti tace,
scambia regali e scherzi, si preoccupa degli scismi di mille anni fa,
della diplomazia ecclesiastica.
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