Non
chiamatela, vi prego, depressione. Anche se oggi è il lunedì nero,
non fatene una sciocchezza alla moda. Depressione non è sentirsi
giù, non è lo scazzo di chi non trova sbocchi. Questo è penoso,
anche straziante, ma non è nemmeno l'anticamera. Ci convivi. Ci tiri
avanti. No, quello di cui parlo è questo viale nero, nel quale torno
ogni tanto, che mi succhia via la voglia di lottare, di pensare. Di
parlare, di scrivere. È un posto, questo viale nero, dove nessuno
può seguirmi.
Ed
è brutto svegliarmi ed essere contento, perché è un giorno in meno
che rimane. Brutto è dibattermi nell'imbuto per l'inferno.
Basta
un gioco d'ombra a farmo allagare da una pozzanghera nera e a stento
riesco a chiederti: l'angoscia che cos’è?
L’angoscia
è quando sento il dolore di una vita, di tutti i miei anni
precipitarmi addosso in un momento, e da addosso dentro, nei polmoni,
nel cuore e scoppiano e mi dilaniano con tonfi sordi che nessuno può
sentire.
L’angoscia
è un pipistrello che mi viene contro, punta verso i miei occhi
eccolo sta arrivando.
E
l'angoscia è figlia della depressione. Nessuno può capire cosa
significa vivere così. E' come vivere all'inferno. Vedi gli altri
che ridono, e li odii. Li vedi vivere normalmente, e ti chiedi come
possono farlo. Ti senti escluso, staccato da un mondo che non è il
tuo. Ovunque ti volti, trovi solo cose già viste, già sentite, i
muri sembrano caderti addosso, la strada sembra sollevarsi per
inghiottirti, il cielo s'abbassa fino a schiacciarti, e il Tempo...
il Tempo si annulla, non esiste più. Ogni attimo che ti aspetta sarà
vuoto d'ora in poi, ogni giorno lo conosci già, è già vissuto, già
speso, nulla cambierà mai, nulla più ci sarà per te. Niente
t'importa, del resto, e niente ti scuote. Non il lavoro, non le
passioni, neppure gli affetti. Odii gli altri, e in specie quelli a
te più vicini, perché non si rendono conto, non ti aiutano, non
capiscono, non fanno niente per salvarti. Odii quelli felici e ancor
più quelli che soffrono, perché ti sottraggono dolore, e la
commiserazione altrui. Vorresti sparire e insieme essere al centro
dell'attenzione. Non puoi credere che sia rimasto almeno qualcuno a
volerti bene. E consideri responsabili quelli che dicevano di
volertene, perché ti hanno lasciato cadere fino a questo punto.
Pensi che non sei mai stato davvero capito da nessuno, per tutta la
tua vita. Vorresti spiegare, ma non trovi la forza, le parole. Hai
paura. Trovi rifugio solo nella tua sofferenza, che alimenti in tutti
i modi e con tutti i mezzi. La tua sofferenza, che si alimenta dalla
sofferenza. Solo immagini angoscianti, musiche strazianti e racconti
di fatti tragici accetti a invaderti l'anima. Sono il suo cibo. La
morte, la morte: quando arriverà, come arriverà. Forse resterai
senza vita mentre gli altri, nella stanza, non se accorgeranno,
continueranno a scherzare, a conversare guardando la televisione, e
un bel momento qualcuno ti rivolgerà la parola, vedrà che non
rispondi, ti parlerà più forte, ti scuoterà e infine... urlerà!
Ma tu non sentirai.
Pensieri
così, in mille infinite variazioni, ma tutti figli della stessa
madre scellerata. Vorresti scacciarli, dimenticare la tua condizione
di malato invisibile, ma è un'idea fissa questa angoscia
inspiegabile, ne parli di continuo, e non tolleri che qualcuno
t'interrompa per parlare d'altro. Ti senti sprofondare ogni momento
più giù, e in fondo sei contento di sprofondare. A un certo punto
non sai più se quello che stai provando è sincero o se lo stai
esagerando, e fino a che punto. Certo, esageri la disperazione che
pure senti, perché vuoi essere sicuro che gli altri se ne accorgano,
anzi vuoi ferirli con lo spettacolo di te che ti torturi. Vorresti
vedere le persone intorno disperarsi per te, e quando questo non
accade le detesti di un odio sordo e feroce. Ti fai compassione, e
insieme orrore. Vorresti morire per rivivere. Vorresti vedere in
faccia il Dio in cui hai creduto per chiedergli perché ti ha
tradito. Vuoi star solo ma hai paura a star solo. Disprezzi il mondo
ma non puoi fare a meno di averlo intorno. A volte, per pochi, brevi
attimi il cervello si rischiara, ti senti a tradimento bene!, pensi
"ma come posso ridurmi così, perché poi, per quale ragione?".
Ti sembra d'intuire che la vita ha mille motivi per essere vissuta,
ma mentre lo realizzi già ti senti di nuovo invadere l'anima da un
lago senza luce, te la senti schiacciare dal cielo che si abbatte
come lastra di ferro. Le forze ti abbandonano e ti riaccomodi
nell'inferno.
Io
non colgo il senso, la ragione di una simile sofferenza che deforma
la vita, la devasta, la riempie. A volte se ne esce, ma ci sono
esistenze intere scandite dalla depressione, che non dà tregua mai,
neppure per un istante. Che schiaccia sotto un muro invisibile,
impalpabile ogni maledetto giorno. E la cosa più terribile è che
una ragione non c'è, e nessuno può penetrare la depressione di un
altro.
Eppure io so, per avere
frequentato le sue stanze gelide e scure, dove una tenda danza al
soffio di un vento di morte, io so che basta poco a a volte a
scacciarla questa nuvola oscura che sta dentro l'anima. Ma io, che
quel buco ho abitato, e ne conservo rovine, so che la depressione è
un sintomo, che cambia di continuo, che esplode in modi sempre nuovi
e imprevedibili; ma non una causa. So che ti avvolge come un tappeto
quando credi d'essere completamente solo e di non poter più
raggiungere nessuno. “Nessuno può capire”, è il mantra che
recitano tutti quelli nell'allucinazione. Sì, la depressione è
madre dell'angoscia ma figlia della solitudine. Si nutre di se
stessa, perché rifiuta ogni compagnia. Non ha la forza d'inseguirla.
Si basta, in fondo si piace. La depressione è perversa. A lungo
andare si trasforma in un alibi valido per tutto, e questo è il suo
trionfo. Non lottare genera apatia che induce a non lottare. Oggi
dicono che si può combattere, si può curare. Nessuna sorpresa per
noi che la conosciamo, che siamo stati morsi da questo vampiro di
carta che finisce in cenere al calore di una carezza, o alla
scintilla dell'orgoglio.
C'è
questo viale nero, non chiude mai e ti aspetta. La depressione
succhia via ogni voglia, ogni forza e ti attira ed è un posto,
questo viale nero, dove nessuno può seguire nessuno, ciascuno ha il
suo. Di
colpo, quella folata d’ansia. Dritta in gola. Poi risale, azzanna
il respiro e non capisci più niente. Dice che ci si nasce in
quest’angoscia senza uscita, tutto quello che la libera poi è
soltanto innesco. L'industriale Ghisolfi, a capo di un impero,
chimica, biocarburanti, a 58 anni si chiude in macchina un pomeriggio
di marzo, si spara una fucilata. Uno che aveva tutto, si dice. Ma è
proprio questo il problema, la depressione è cieca, puoi non avere
più niente da vincere oppure da perdere e lei viene lo stesso.
Ricordate il racconto di Saul Bellow, quello che, chiuso in una
stanza, una domenica a New York, vede sotto la città-deserto, sente
arrivare la folata e allora chiama la polizia: “Venitemi a
prendere, ditemi che sono vivo”.
Il
viale nero non ha posti e non ha confini, non guarda chi sei. Ti
aspetta, e l'attacco più famoso di tutta la letteratura di tutti i
tempi è una sentenza: “Mi ritrovai per una selva oscura”.
L'incubo di Dante poi ne genera di infiniti, nella pittura, nelle
arti figurative, tutti cercano di tradurre in immagini quella
dimensione infernale che è di ogni latitudine. Secondo il Washington
Post, che forse fa propaganda, la depressione colpisce soprattutto i
popoli mediorientali, il che spiegherebbe una certa propensione alla
distruzione fanatica; subito dopo, sorpresa, l'Africa: a dispetto del
luogo comune che vuole tra i maggiori aspiranti suicidi i popoli del
nord, avviliti da poca luce, poco calore: gli esotici, i caraibici
proverbialmente se la spassano di più, ma che dire del Paese del
Sole? Il ministero della Salute certifica 2,6 milioni di patologici
le ultime proiezioni ipotizzano non meno di 5 milioni di depressi
oltre a 3 milioni di ansiosi, cioè più del 10% della popolazione:
allegria. In crescita per la crisi e perché, diciamolo, la
depressione è anche una moda: garantisce tormento, sensibilità, per
Artistotele era il crisma di artisti, pensatori, politici: ma qui non
si scorgono degli Winston Churchill (macerato dietro la facciata di
granito), e la si inflaziona in modo intollerabile: “Mi dai
l'ansia, mi fai suicidare”. È anche un business, e viene curata
spesso in modo criminale. Invece merita rispetto. Indro Montanelli la
chiamava “il sole nero”, e la accettava: “In quei momenti sono
un verme, ogni notte mi processo, sono il mio giudice e non mi sconto
nessuna colpa al mondo”.
Non
conta chi tu sia, ma quando tu sei qualcuno la depressione è più
ambigua, più indefinibile: Luigi
Tenco, politicamente infatuato, si fa saltare le cervella durante un
festival di canzoni incolpando la giuria, il pubblico e perfino la
povera Orietta Berti pur di non ammettere che la collega-amante
Dalida (a sua volta suicida) gli dava il tormento. Monicelli si
lascia volar giù da una finestra: perché, passati i 90, non
accetta, comprensibilmente, gli ultimi incombenti mesi di strazio da
malattia, o perché vuol lasciare l'ultima, definitiva testimonianza
di chi non ha mai subìto la vita, le cose, se stesso? Hemingway era
una sensibilità predisposta o un invasato dai demoni della
letteratura, del sesso, dell'alcool? Cesare Pavese ha scolpito un
verso terribile, “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”: per lui
furono quelli dell'assenza, mai fianco di donna al risveglio, e
bruciò nel sonnifero il mestiere di vivere. “Quale allegria”
canta Lucio Dalla in un brano memorabile “Per essere stato ucciso
quindici volte in fondo a un viale per quindici anni la sera di
Natale”. Con
gli ultimi ci sono meno rovelli: loro fanno notizia, forse, solo il
giorno che spariscono, usando a volte, chissà se per disperazione o
per una sorta di atroce sarcasmo estremo, gli strumenti delle
attività fallite, come quel contadino cinquantenne di Conegliano che
si impiccò nella stalla, vicino alle bestie, perché non riusciva a
pagare il mutuo. Ma è giocoforza
parlare dei ricchi e famosi, che tra l'altro ci mettono del loro.
Vasco Rossi ha affidato il suo male di vivere a Facebook, cercava il
conforto dei fans, ma il social ha aggravato il male. Si è salvato
tornando sul palco, forse perché, come diceva Vittorio Gassman,
“l'applauso è come un orgasmo”. Gassman, impregnato
di teatro fin nell'anima: bipolare, custodiva in sé le due maschere,
che lo tormentavano entrambe. Ma è lecito fare l'elenco infinito dei
depressi celebri, da Marilyn a Robin Williams? C'è un bel verso di
Renato Zero: “Tentazioni e mai la volontà di finirla qua”. Chi è
stato morso da questo vampiro di ombre sa che il vampiro finisce in
cenere al calore di una carezza o alla scintilla dell'orgoglio. Ma il
vampiro torna, si trasforma in pipistrello, punta proprio te eccolo
sta arrivando.
E' il tuo pezzo più bello, è proprio quello che sento, come mi sono sempre sentito. un viale nero che non finisce mai, ogni tanto, un po' di sole che rischiara e poi di nuovo il buio. intorno, gli altri, e il risentimento per loro. e anche il timore di esagerare, di "stare facendo i capricci".
RispondiEliminagrazie, Massimo
Caro Max, sconcerta come la cosi detta società ha, da qualche anno, banalizzato la depressione. Un abbraccio.
RispondiEliminacenzino
Ti voglio bene max
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