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ALBERTO


Tutti ridevano. Mio padre parlava e sudava e fumava e beveva “tazze d'acqua”, non bicchieri, proprio delle tazze, “Massimo per favore portamene un'altra”, in casa alle prese con gli orientali, i giapponesi, i coreani, i cinesi che allora non erano vicini e rimanevano soggetti misteriosi di un mondo che s'andava rimpicciolendo, che ce li portava in casa, vicini ma non ancora abbastanza per renderceli simili. Lo accompagnavo all'aeroporto alle dieci di sera a prenderli, che luci, che presagi di futuro lungo la strada per Linate, fin dentro le aree “arrivi internazionali”, piene di gente indaffarata, che viaggiava, che sbarcava, mio padre in quei primi Ottanta era la globalizzazione, la praticava con anni d'anticipo armato del suo inglese stentato, alla Alberto Sordi. Ma i soggetti misteriosi, i cinesi e i giapponesi si arrendevano uno via l'altro alla sua travolgente simpatia, a quel modo che allora giudicavo naif, provinciale, imbarazzante di combinare affari passando per lo spiraglio della paraculaggine, proprio da italianuzzo medio, da Alberto Sordi partito dalle oscure Marche e proiettato in un mondo troppo grande. Ma lui non aveva paura, salpava col suo inglese maccheronico e un debito per pagarsi il viaggio che avrebbe poi saldato, si sperava, coi soldi messi insieme nell'Oriente estremo più che mai. Oppure li faceva venir qui e mia madre li stordiva a forza di manicaretti, che poi quelli non volevano più tornare, ne ho messi più io che l'Alitalia sull'aereo, con le lacrime agli occhi e l'implorazione “send the bill please”, mandaci la ricetta che alle nostre mogli geishe non potremo mai spiegare quei profumi, quei sapori.
Poi successe quel che successe, una rapina, proprio così, di quelle coi banditi armi in pugno, tipo quelli che il giudice compagno De Cataldo ha reso eroi fumettari col Romanzo Criminale, azienda svuotata, banche sciacalle, azienda finita e ci ritrovammo qui, nelle Marche da dove lui era partito, e per salvarci e per tenere pulito quel doppio cognome, come per offendermi scrisse una signora su un giornale, al quale lui invece teneva moltissimo, ricominciò ad espatriare, non più componenti elettronici, “transistor-componenti-resistenze”, prima della rivoluzione informatica dei microchip, ma scarpe, centinaia di scarpe, decine di campionari che questo padre ormai segnato, ma sempre alla Alberto Sordi, patetico ma irresistibile, si portava dall'altra parte del mondo, a 50 anni, a 60, sempre col quel dubbio lacerante: e se non riesco a pagarmi il viaggio? Invece ci riusciva, conquistava ogni volta l'Estremo Oriente, sempre meno estremo, ore ed ore di trattative sfibranti a forza di parole, di sigarette e di tazze d'acqua, ma alla fine i musi gialli cadevano uno dopo l'altro, tutti con lo stesso sorriso obliquo, inquietante ma di resa, di accettazione del più forte: ok mr. Del Papa, hai vinto, comperiamo quello che vuoi tu. E a quel punto era mio padre a ridere, accendendosi di trionfo l'ennesima Marlboro sopra una foresta di mozziconi.
E gli scarpari idioti, ignoranti, del Fermano presociale che mezz'ora dopo la partenza telefonavano a casa: “Purcuddiu, ma Alberto ha fatto l'ordine? C'è jitu in machina a lu Giappone?”. E poi lo fregavano, regolarmente, lo umiliavano perchè gli scarpari fermani sono tra i più ladri e i più miserabili del mondo. Ma lui non si ribellava, non poteva e questa cosa orgoglioso com'era lo corrodeva dentro. Una vita che ammazzava e difatti s'ammalò mio padre, anni di circumnavigazioni in solitaria alla conquista della Cina, del Giappone, di Singapore, con quei campionari di scarpe, di colle, di vernici che poi si respirava in camera, sepolto dalle scarpe stipate nella stessa stanza per risparmiare. Mi pareva naif mio padre, ingenuo e paesano, parve divertente anche ad un ragazzotto che una sera al ristorante lo sentì trattare coi cinesi e rideva rumoroso, commentava rumoroso e mio padre se ne accorse e allora il padre del ragazzotto, come in una pagina del libro Cuore, si alzò, venne al suo tavolo e con voce ferma ma incrinata disse: “Le chiedo scusa a nome di mio figlio, è giovane e viziato”. “Non si preoccupi” rispose mio padre buttando giù una tazza d'acqua.
Personaggio da commedia dell'arte, nel suo mestiere, lo era di sicuro. Ma a pensarci adesso non riuscirei a dire se fosse così nature o lo facesse apposta, in una sofisticatissima commedia dell'arte che tutto dosava, compreso quel suo inglese così improbabile eppure efficace. Ci ripenso ogni volta che leggo sui giornali della fatica sterile per le nostre aziende e per le nostre istituzioni di penetrare davvero nei mercati emergenti, ci ripenso ad ogni convegno pieno di fregnacce manageriali che presento. acile, fare il drago se dietro hai i capitali sconfinati delle banche amiche che ti lasciano affondare quanto vuoi e non ti chiedono mai di rientrare, ma avrei voluto vedervi senza risorse, senza appoggi, senza un cazzo a parte il vostro inglese incredibile e l'entusiasmo della disperazione. Una volta un ministro dei Soldi ebbe a dire che le nostre strutture promozionali all'estero erano “folkloristiche”, anche mio padre era folk ma i risultati li portava a casa. Questi invece si inoltrano, in prima classe, in un mondo più corto, più facile, più comodo, più informatizzato solo per combinare chiacchiere, mangiate pantagrueliche e turismo sessuale con lo stemma di Magic Italy voluto dal turistico ministro di turno. Quanti sprechi, quante ruberie e turismo pornografico venivo a sapere dal mio piccolo corsaro padre che già allora si scontrava leggero con le corazzate degli organismi istituzionali, mastodontiche e improduttive.
Questo padre ha appreso di avere un doppio cognome un giorno di maggio mentre sopportava le ultime chemio per tenerselo pulito questo cognome, per trasmettermelo, unica eredità da indossare a testa alta. Il disprezzo si deve a certa Anna Masera, che non conoscevo, storia lunga, ma non ci occupiamo qui dei portaparola. Marciva mio padre dal doppio cognome e una delle sue ultime frasi fu “Non ho paura di morire, mi dispiace solo di lasciare la mia bella famiglia”. E non aveva avuto mai un cazzo dalla vita, quella famiglia lo aveva consumato, era per noi che ogni volta doveva circumnavigare il globo come un Magellano delle scarpe. Io me lo ricordo adesso e mi bruciano dentro quei rimproveri che gli muovevo, spietati, da laureato viziato che al suo ultimo viaggio lo accompagnò scoprendo di avere un padre corsaro, che conosceva ogni buco di Hong Kong, di Tokyo, di Pechino, rendendosi conto di quanto fosse ingrata la sua fatica solitaria, fantasioso il suo coraggio e alta la sua maestria nel pigliare per il culo il mondo intero, nello sfinire quei maestri di tortura che erano i cinesi, nel capire quelle sfingi itteriche dei giapponesi, nel portare a casa ancora un contratto di scarpe col quale permettermi di studiare, di vergognarmi di lui, dei suoi metodi folkloristici.

Commenti

  1. tuo padre, a modo suo, e'stato un grande uomo, carico d'umanità, di generosità e di coraggio, me lo ricordo bene....noi allora non potevamo capire, ci vogliono gli anni per capire

    Davide, Milano

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  2. Appartengo alla generazione successiva del settore elettronico di tuo padre; fidati di cenzino: tuo papà era avanti. Sul serio. E per questo merita un ricordo pieno di rispetto da parte mia.

    cenzino

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