Nell'ultimo film che girò, con Federico Fellini, Marcello Mastroianni a un certo punto dice “Non lo so, mi pare come se le cose una dopo l'altra mi salutassero per l'ultima volta”. Interpretava se stesso, stava morendo e lo sapeva. Io non lo so quanto presto morirò, ma da un po' provo la stessa impressione; di sicuro, realizzo di non avere abbastanza tempo per fare o riprovare tante cose, assaporare ancora scorci remoti. Allora mi soccorrono i libri. È notte, rileggo un Maigret, c'è un irresistibile passaggio su un viale d'autunno ed ecco, lo sto percorrendo in macchina, come ho già fatto tante volte, riconosco quella sensazione, riconosco il canto di quelle foglie, il sapore della pioggia che danza sul vetro, la tristezza calda della strada oltre il finestrino. Sono a casa. Sono dalla mia solitudine implacabile. Dura un attimo ma è abbastanza, non debbo immaginarmi niente, mi basta rievocare qualcosa che ho lasciato dentro, non potrei riviverlo più di così. Io non ammetto la felicità, accetto il sollievo, che è la sua negazione destinata subito a negarsi. Ma lo scovo in una pagina di Simenon, nella tromba di Chet Baker, in uno scatto sconosciuto, perfino un fumetto: di colpo m'investe la grandezza di una narrazione, quel potere del rapimento, dell'incanto che pochi, immensi stregoni scatenano: non si disperdono tra folate di note, di parole, di immagini, di istanti, scelgono solo l'essenziale e così fanno vibrare quel luogo inaccessibile che chiamiamo anima. Baker suonava a orecchio, ma non ce n'era per nessuno. Scrivere è lo stesso, ma quell'orecchio assoluto, universale ce l'ha uno su un miliardo: il resto è letteratura.
Io ti voglio consigliare un romanzo che sento affine a quello che hai scritto: la stranezza che ho nella testa, di orhan pamuk
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