Una telefonata mattutina racconta una storia lontana. Un remoto parente mai conosciuto, acquisito, insospettato, suppergiù la mia età. Cugino di mia moglie, che lo ricorda, da piccoli, lunghi pomeriggi a leggere i fumetti, amava Tex e sapeva scaldare il tempo col suo sorriso mite. Condannato a diventare un uomo buono, sempre solo, di quelli che aiutano tutti ma incapaci di trovare fortuna. Si sente male, si ammala, ma non smette mai di faticare, ogni giorno, da solo, in una città estranea. Un lavoro umile, il più umile del mondo. Dopo, sfinito, si cura. Da solo. I genitori neppure lo chiamano, per la sorella non è un fratello, amici veri non ne ha, un amore non ce l'ha. Chi si prenda cura di lui non esiste. Fuori dal mondo, escluso da ogni futuro, continua a lavorare e non sa che potrebbe fermarsi, aiutarsi, che gli spetta il riposo per malattia. Forse, chissà, neppure vuole, meglio la non vita di ogni giorno che un letto in un ospedale dove nessuno viene a trovarti. Da solo fingeva che non fosse niente, ma l'uomo non è fatto per star solo, ha bisogno dell'affetto di qualcuno, fosse anche un cane. E invece lui voleva bene a tutti, sorrideva a quello straccio di vita spesa nell'inutile speranza di un piccolo miracolo, un giorno. Ha finito oggi, a 48 anni, un tumore. Nessuno lo sapeva. Ha lasciato scritto che non voleva stare da solo anche al cimitero, voleva essere cremato e le ceneri sparse sul monte Cavo, silenzio nel silenzio.
Un pugno nello stomaco al giungere della sera.
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