Ho dentro impermeabili
che non si usano più, macchie di ghiaccio sporco addosso a facce
sghembe, affilate, mal rasate, le facce di chi sta sempre in fuga o
all'inseguimento. Potevo sentire vibrazioni malsane attraversare quei
mantelli dai baveri assurdi, stretti da cintole colossali, buone per
strozzare qualcuno o per impiccarlo.
E ho dentro le corse
degli autobus arancio, allegri mentre sbuffano il loro fumo dal
comignolo, pieni di umanità frettolosa o annoiata, che mi facevano
sentire in un grande villaggio, fatto di villaggi più piccoli ma
tutti uniti da uno stemma che indicava qualcosa di comune, non saprei
dire cosa, come ma anche io ne facevo parte, insieme ad altri
milioni, e senza di me era un po' meno completo, era un po' meno
villaggio.
E ho dentro gli autunni
che portano dischi e rimpianti d'estate, le docce di foglie di
ruggine e l'aria che punge improvvisa e ti dice che hai un anno di
meno e un anno di più.
E ho dentro gli sforzi, i
sorrisi di chi s'imbarca in una impresa umile, brucia se stesso,
resiste e tenta ancora, con amore inguaribile, con malata speranza,
finché un giorno gli occhi scendono come due saracinesche e il mondo
neanche se ne accorge. Ma loro restano quelli che sono, non ce la
fanno a diventare cattivi, sorridono sempre, scoprendo nuove rughe,
li senti cantare piano e ti accorgi che se potessero, medicherebbero
il mondo che li ha fatti a pezzi.
E ho dentro quelli che
non ce la fanno a tirare la vita, non sono attrezzati, non vincono
mai, finché si stufano di far finta di niente, di continuare a
perdere e allora si costringono a cambiare, violentano la loro anima
al punto che un brutto giorno non sanno più chi erano e non sanno
più chi sono, vanno farneticando allo specchio e gli tocca
ricominciare da capo, cercando sotto strati di dolore la tenerezza
che avevano prima, che hanno congelato, perché non era più vita. Ed
è una fatica immane, un dolore da non dire, uno sbando spaventoso
quel cercare di sapere chi non si è mai stati, quel ricomporre
coriandoli di sé, vergognosi delle proprie disfatte, piegati con
addosso il peso di ogni sconfitta eppure decidendo di smettere ogni
corazza, perché è anche peggio di prima quel fingersi dentro, quel
millantarsi addosso.
E ho dentro sabati che
non usano più, perché adesso il calendario non ha posto per le
soste e ogni giorno è uguale a tutti gli altri. Ma io ho dentro quei
sabati del villaggio che di pomeriggio uscivo con mio padre per la
processione delle botteghe, una scappata dal suo amico gioielliere
che gli raccontava sempre le stesse cose e gli mostrava sempre la
stessa pistola e mio padre sempre lo stesso brivido mascherato e poi
usciva e entrava dal tabaccaio a fianco per giocarsi la schedina
“matta”, così matta che non usciva mai, neanche per sbaglio, e
mai uscì. E dopo, la sera, la gioia infantile e confortevole di un
universo che mai sarebbe cambiato, a nostra misura di felicità. Che
cominciava a incrinarsi già la mattina dopo, un filo sottile
d'angoscia che cresceva tutto il giorno per esplodere nel tardo
pomeriggio. Uscivo a cercare aria e i viali del quartiere erano così
morti, spazzati di gente, qualche sagoma estranea che subito spariva,
eco di passi, di autobus vuoti, di macchine che parevano non saper
dove andare. La sera calava spietata e c'era vita solo dai pizzaioli
sempre infuocati, cuocevano e fumavano, cuocevano e fumavano in
zoccoli e camici unti e i vetri s'appannavano e quelli in fila non ne
potevano più e appena toccava a loro correvano fuori portando vassoi
colossali di pizza con cui uccidere quel che restava di un'altra
maledetta domenica, incontro a un'altra settimana di sangue.
Crescendo il sabato
cambiava insieme a me, adesso cominciava nel momento esatto
dell'ultima campana di lezione, un volo a casa e poi, estate o
inverno, via al parco Lambro a giocare a pallone con lo stomaco pieno
di un pranzo trangugiato mentre ti vestivi da calciatore, perché da
ragazzo sei invulnerabile. Non sono mai stato un granché, ma,
retrocedendo in difesa, avevo imparato ad anticipare e colpire, due
doti che non ho mai imparato nella vita. Anticipare e colpire.
Più
avanti il sabato cambiò ancora, adesso la sera uscivo, ogni sabato
una festa, delle quali ricordo poco e quel poco a volte vorrei
avermelo sognato. Quando tornavo lucido abbastanza da capire chi ero,
salivo in bici, in motorino o sul tram e attraversando la città
piena di ombre ritrovavo gli impermeabili, gli zombi vestiti di
ghiaccio sporco. E facevano più paura, perché il tempo era andato
avanti ma loro erano rimasti gli stessi.
Che bello e quanto vero:
RispondiEliminaperché adesso il calendario non ha posto per le soste e ogni giorno è uguale a tutti gli altri.
Devo pero' confessare che le domeniche erano di una depressione mortifera a partire dalla messa obbligatoria al pranzo dalla zia, in quegli ambienti - nel mio caso semi benestanti - cupi, con l'orologio gigantesco a pendola con i suoi rintocchi, citta' deserte, negozi chiusi.
A me niente dava più tristezza dell'inizio del campionato di calcio.
RispondiEliminaLa domenica la preferisco coi negozio chiusi. Anche i commessi han diritto di festeggiare.
Nel resto del mondo hanno inventato i turni.
EliminaMa per le domeniche in "famiglia" caro Massimo non c'erano turni - almeno nel mio caso il bigliettone da 10 sacchi (diecimilalire) come dice Maurizio Battista, "quanno c'erano ancora le milalire" lo rimediavi.
RispondiEliminaCon affetto e stima semper.