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A TRADIMENTO


Poco fa rientravo dal dentista, che è una situazione double face perché ormai siamo amici, però mi sta ricostruendo una bocca diroccata e fa un bel male. Tornavo a casa e ho sbattuto contro un attimo che mi ha stordito, non c'ero più abituato: un uomo giovane, forse un padre di famiglia, nella sua macchinina, la camicia azzurra, le maniche fatte su, il nodo della cravatta allentato. Anche di questo è fatto un tramonto, anche per quello sconosciuto passava la primavera: ho rivisto mio padre, che tornava la sera, la giacchetta sulla spalla, stanco e contento come chi si è guadagnato la giornata, e quello che resta, quel languore stremato, quel sorriso orgoglioso e un po' paraculo, lo dona alla famiglia. Così anche i padri dei miei amichetti. Tutti la stessa espressione avevano la sera. Non nascondo che spesso con un pretesto scendevo in strada a spiare quello spettacolo banale, perché era la città che viveva e rifiatava. Ho sempre adorato la città, i suoi palpiti, le pulsazioni del mio quartiere. Le assorbivo, e adesso sono qui che ne scrivo. Poi mi sono visto uscire da me, come nelle esperienze di premorte, ho visto un tipo curvo sulla Vespa, infagottato, spuntavano solo i jeans attillati, la figura appesantita. Ora, io non mi premio e non mi incolpo per la vita che ho avuto, alla fine ho capito che solo quella potevo spendere. Perché puoi fare i tuoi errori, perdere e lasciar perdere occasioni, lottare come un disperato e subire come un rassegnato, puoi anche concederti quei piccoli momenti di eroismo spicciolo che poi sono solo la rincorsa a una coerenza vanitosa, ma alla fine, alla resa dei conti con te stesso devi arrivare; e, quando ci arrivi, ti accorgi che non potevi che finire così. Senza mai esserti vestito un giorno per andare a lavorare, senza sapere cosa sia rincasare la sera e allo stesso tempo senza smettere mai, niente orari, né feste, né ferie. Quando quei giovani padri rientravano, io magari dovevo correre in tribunale o all'obitorio. E, se ci penso, capisco che non è proprio come diceva Nietzsche, arrivare ad essere chi si è, è un po' alla rovescia, non poter che essere chi si sarà. Ribelle, imbelle, disadattato, indeciso, sono prospettive maliziose, giochi di specchi per illuminare il passato. Ma rileggere un risultato non lo cambia. “Tutto resta uguale ed è banale”, canta Benvegnù. Ed è banale questa libertà ostinata, che non ho scelto e che mi ha scelto. Non me la merito in nessun senso, non è un vanto o una vergogna entrare in una scuola, come stamattina, e ritrovarsi vestito come gli allievi, anzi peggio perché almeno i loro stracci sono alla moda. L'adolescente fuori quota che sono resta quello di trenta, quaranta anni fa e non c'è altro da dire, non ha senso esaltarsi, dolersi, interrogarsi. No, io non processo i miei giorni con i loro vuoti, i rari sprazzi di sole, i temporali inesorabili e sempre gli stessi jeans fino l'oblio di un nodo di cravatta. Mi va bene questo, vivo con disinvoltura la condanna a non invecchiare, accetto tutto con la saggezza di chi ha imparato il tempo. Dico soltanto che al tramonto, a tradimento una visione m'ha iniettato il sospetto d'essermi perso qualcosa. Perché questa libertà obbligatoria, questa libertà senza scampo qualche volta non vale niente eppure costa.

Commenti

  1. Grazie Max. Per tutti i giorni che passo qui in ufficio. Per tutte le sere che, rientrando a casa, saluto mia moglie e le mie figlie e abbraccio il cane, e mi sento un po' pirla e un po' frustrato per aver trascorso una giornata di primavera chiuso dentro quattro mura a battere sui tasti di un pc. E allora sai che c'è? C'è che questa sera appena rientro mi sa che sfoggio un sorriso orgoglioso e un po' paraculo.
    Un saluto affettuoso
    Sandro

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