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SABBIE MOBILI


Quando ero bambino non ci credevo, non sono nato con quell'istinto io e non mi ci hanno allevato due genitori sospettosi, sì, come di regola nella piccola borghesia contadina, ma poi disposti a fidarsi di tutto e di tutti in modo anche scriteriato. Di quelli che chiedono all'oste se il vino e buono e dopo lo bevono, rassicurati. Sono dovuto campare una vita, malamente, per capirle, le sabbie mobili. Sono quelle che non ti mollano mai, ti tirano giù, se possono ti rovinano e quando pensi di esserti salvato, di esserne uscito fuori, di averle lasciate alle spalle, tornano. Prima o dopo tornano. Sempre più vischiose, con la finta umiltà che non perde mai la volgarità dell'essere: tu lo senti, lo capisci che sono lì pronte a inghiottirti ancora. Le ho viste ungere mio padre, e ancora non ho imparato. Le ho viste negli occhi, e non ho capito. Sono dovuto passarci a mia volta, sperimentando la stessa apnea angosciata. Sono dovuto arrivare al limite della rabbia, violentando una natura trasparente. Eccole di nuovo, perché le sabbie mobili non si placano mai, passano da un inganno a un fiasco a un altro imbroglio, subito, senza soluzione, senza ritegno, anzi alimentando la loro propensione. Cercano quelli come me. Eccole ancora. E non sai se riderne o sentirti offeso, perché ad imparare, a riconoscerle infine da lontano, sono state proprio loro. Il bagno nel ribollire di fango. Un fastidio, non lo negherò, vederle riaffiorare, che nessun senso di rivalsa può arginare. Certo, uno potrebbe semplicemente consolarsi, “lo vedi come cambiano le cose”, ma la verità è che non serve a niente. C'è una schiuma che resta a luccicare, ed è quella che vorresti non vedere più. Mai più. Una bava di lusinghe, di promesse, di pretese appena velate dall'esibita disperazione. Mai di scuse, mai di ripensamento, sarebbe svelare il gioco. Quanto mi sarebbe servito imparare presto, nascerci anzi con quell'istinto ferino di difesa. Non ascoltare nessuno, prescindere da tutte le versioni, dai giuramenti, dalle lettere e le telefonate. Ascoltare solo quell'istinto di trapezista che non si fida, che conta solo sul senso del tempo, sulle mani salde sulla sbarra. Questo mi è mancato nella vita, questo ho maturato troppo tardi e adesso c'è chi non ci può credere, mi vede sempre il solito coglione disposto ad aprire la porta, il cuore, le parole, sempre lo stesso coglione alle cui spalle ridere. La minaccia non c'è più ma la polvere di rabbia per quella improntitudine malata, che se solo potesse tornerebbe a inghiottirti, quella non può passare. 

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