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NAOMI SHELTON & THE GOSPEL QUEENS - COLD WORLD


C'è qualcosa nel proditorio revival del soul di questi tempi che va oltre la retrologia, asfittica moda di una moda, patetica compulsione al rimpianto. Perché questi dischi di soul non sono neosoul, sono classic soul, variamente declinato ma sempre con la consistenza sapienzale della tradizione. Insomma sono nuovi dischi di un genere vecchio, incisi da interpreti “vecchi”. Gente come Charles Bradley, come Lee Fields, che ha conosciuto il successo solo oltrepassando i loro personali sixties, dopo una vita nel sottoclou del soul più rutilante – e mentre Mick Jagger rispolvera al cinema la leggenda di James Brown. 
Prendi Naomi Shelton, questa gospel singer dalla voce ricca di tutte le stagioni, di ciascuna delle circa 70 primavere trascorse. Naomi Shelton da Midway, Alabama, e dove sennò, canta la musica del Signore, canta di peccatori, canta gli stomp domenicali chiesastici - “Levati in piedi bambino!” - ma i suoi toni sono insofferenti di catene, ma l'intensità non la puoi incamiciare, ma quella voce lambisce la rabbia, s'arrocchisce, arrugginisce, raccoglie il muschio, scende nelle cavità dell'anima, ne scrosta i segreti più umidi, riemerge cambiata, non disdegna l'eresia e la dannazione; quella voce s'inalbera, si pente, riprende vela, si esalta in un coro mistico: l'accompagnano i Gospel Queen, detto tutto, formazione veterana benché messa insieme con Cliff Driver nel non lontano 1999 a New York, capace di sguazzare tra tutti i sottogeneri: gospel, black gospel, funk, deep funk revival, northern soul e chi più ne ha ne inventi, tanto è sempre “quella musica”. 
Quella inarrivabile musica. Sacro e profano così come mistica e terrena è Naomi, che fin da giovane alternava l'incenso della chiesa alla polvere alcoolica dei bordelli di Brooklyn mascherati da locali notturni, e qui diventava Naomi Davis. Cose assurde che solo alle cantanti nere dell'anima riescono perfettamente naturali e plausibili. Perché non basta stabilire, folgorati dalla banalità, che c'è il bene e il male, il bianco e il nero in ciascuno di noi (laddove il nero, nel caso musicale, è il bene), bisogna proprio tatuarseli, incarnarseli e poi dimenticarsene, farne un'appendice esistenziale come quelle fumatrici che non sanno neanche loro di vivere appese a una cicca ma non puoi immaginartele senza. Se la senti cantare, Naomi Shelton/Davis, lo capisci. Il rosario di Cold World, appena uscito, a 5 anni dal debutto di What Have You Done, My Brother?, e dopo inesauste stagioni per i festival del mondo, ma di quelli che ogni sera consacrano, Bonnaroo, The Monterey Jazz Festival, Montreal Pop, e The Ottawa Blues Festival, non concede un bel niente alla modernità: nei suoi cori, nelle sue scansioni, nei suoi fremiti, nei suoi ammonimenti, nei suoi organi, nei suoi orgasmi, nei suoi lamenti (I Don't Know), nei suoi abbandoni, nei suoi languori, nei suoi ottimisimi, nelle sue escandescenze e depressioni e meditazioni – oh, così Sixties. Tu trovaci Curtis Mayfield e Stapel Singers, Sam Cooke e quello che vuoi. 
Niente alla modernità, tranne la perennità di “quella musica” nera che esce dalle viscere della terra e dell'anima, delle lacrime, dei sorrisi scintillanti, dell'ingiustizia, della sofferenza, dell'esodo e del riscatto e della fede, e che proprio perché intrisa di fede non può morire e non può cambiare. Get Up, Child! Naomi canta, e il tempo si ferma: noi, intontiti figli di quei '60, forse perfino suoi nipoti, possiamo allora acchiapparlo facendocene acchiappare, avvolgere, stritolare per consegnarci a un incanto in bianco/nero e domandarci se fosse davvero tutto oro, oro nero quello che la nostalgia fa luccicare. Nostalgia per un periodo in fondo non vissuto, lambito appena, tuttalpiù sospettato. È l'eternità del passato che si fa futuro, che si cristallizza nell'unica esistenza del presente, crocicchio, cortocircuito fra ciò che non è più (forse non è mai stato) e cioè che non è ancora (forse non sarà mai). Non puoi fare questo se non sei nero, e non puoi farlo se non hai già sessanta, settant'anni: devi avere vissuto prima, avere perduto, cercato, trovato altro, e altrove. Devi essere stato nel sottoclou della vita. Devi avere esordito a 60 anni suonati, dopo avere cantato tutta la vita. Devi avere cantato, e cantato, e cantato, oltre la morte, oltre vita. E questo è per l'appunto Cold World, una desolata, esaltata, ieratica, solenne, tenera, feroce invettiva su mondo troppo freddo, troppo ingiusto, troppo sbagliato. 
Poi la signora canta One Day, e noi ci arrendiamo: verrà un giorno, quello che non è stato e mai sarà, verrà quel giorno, il giorno eterno che non cambia, che non abbiamo vissuto ed ogni giorno inseguiamo; eccolo, per un attimo ci passa davanti, in carrozza sulla voce di Naomi Shelton, farfalla ringhiosa, e noi capiamo quel che sant'Agostino diceva del tempo: se non me lo chiedi lo so, se me lo chiedi non lo so più.
(dal Faro speciale estate)

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