Oggi dovevo finire una
cosa importante, un libro da consegnare entro il mese per poterlo poi
presentare ad ottobre: e sono andato al mare. A lavorare. Adesso con
i giocattoli che ci sono lo puoi fare, per il mio mezzo secolo mia
moglie mi ha fatto trovare un tablet, che sarebbe un computerino da
viaggio, e io l'ho provato in spiaggia. In spiaggia c'era un vento
naturale terribile, ma a parte questo c'era il vento della boccaccia
di un paio di donnette che vociavano superando le folate.
Inarrestabili, implacabili. Mi sono infilato le cuffiette, sparando
la musica a tutto volume, e sentivo solo il loro gracchiare.
Pazienza, almeno il tablet funzionava benone e ho potuto procedere
con la stesura definitiva. Tornando in Vespa, dicevo, anzi urlavo, a
mia moglie quanto fossi soddisfatto: il libro è uscito
sorprendentemente bene, malgrado certe difficoltà per assemblarlo, e
questa faccenda di lavorare senza averne l'aria, in faccia al mare,
io l'avevo sempre sognata. Una dimensione caraibica, pubblicitaria.
Dicono che la tecnologia è arida, è spersonalizzante, lo ripeto
spesso anche io, ma, a saperla sfruttare, regala invece momenti di
pienezza: soprattutto perché ti astrae dalle molestie, più o meno
inconsapevoli, della gente. Insomma tornavo a casa contento,
appagato. Poi ho visto un tipo, giovane, maniche di camicia
arrotolate, appoggiato alla sua macchina, che parlava al telefono,
parlava di lavoro come uno che ha appena esaurito una giornata
canonica, ci penserò domani, adesso mi rilasso un po'. Lo guardavo e
non sapevo se invidiarlo o meno: forse, a conoscerci ci saremmo
invidiati l'un l'altro, io in lui quella normalità che non ho mai
conosciuto, lui in me quella vita completamente sregolata che forse
sogna. A volte mi tormento, perché ho sfacchinato tanto in vita mia,
però senza mai averne la sensazione. Oggi stavo al mare, disteso sul
lettino, a correggere le mie bozze, che vita da pascià. Ma poi il
senso del dovere sociale, dell'ufficio, dell'impegno ad ore, sepolto
da qualche parte, forse nei geni, forse nelle memorie familiari, è
affiorato per colpa di un ragazzo che staccava. Quando tento di
spiegare cosa faccio, cosa sia questo mestiere che non è un lavoro,
che spesso prevede ritmi ribaltati e orari mai scontati, il mio
interlocutore immancabilmente mi risponde: però, che fortuna. Io
all'inizio provavo a spiegare che si tratta di una fortuna molto
relativa, molto opinabile. Poi ho smesso, tanto non venivo creduto.
Ma sono arrivato a 50 anni e, tra ondate furibonde di fatica ed
estenuanti vuoti da riempire, non ho mai imparato cosa sia un
lavoro-lavoro, la lancetta che raggiunge l'ora X, io che prendo la
giacchetta, saluto, esco, ci vediamo domani, e vado incontro ad una
meritata sera. Invece ho una vita blues, per me spesso la sera, la
notte, è quando comincio davvero, sono le ore più accese, quelle
dove tutto di me si decide.
Ora, il primo sacrosanto principio è che ciascuno organizza la propria vita come vuole ( e, in genere, come può ). Detto ciò , questi giocattolini saranno, e in parte già sono, una grave disgrazia. Se uno se ne va al mare, e anzichè farsi un bagno o giocare coi figli o guardare il sedere alla vicina d' ombrellone, deve finire la relazione, o rispondere alle e mail, vuol dire che non stacca, e la vacanza - e direi, addirittura, la vita- sono irrimediabilmente rovinate. Naturalmente, questo vale per i comuni mortali, non per gli artisti, per i quali vita e lavoro sono un tutt'uno
RispondiEliminaVero è. Però un culetto apprezzabile riesco ancora a inquadrarlo, e non con lo smartphone.
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