Questa pretesa che un
giornale di partito non possa morire, non possa sparire, non debba
essere sottoposto alle regole del mercato ovvero dei lettori,
pretenda una immunità alle dinamiche della vita che si risolve in
una sorta di esistenza blindata, di sopravvivenza al di là di ogni
concorrenza, merita qualche considerazione. L'Unità, organo della
sinistra istituzionale, chiude (temporaneamente, vedrete) i battenti
e lo fa con una prima pagina di raro vittimismo: “Hanno ucciso
l'Unità!”. Per dire che è stato il partito, o meglio: è stato
Renzi, lo spretato, il bastardo, il disorganico, a non volerne
protrarre la sussistenza. Quando si dice buttarla in politica, non in
informazione. Dentro, un carosello di pagine bianche, ancora più
lamentose. Esempio raro, non unico: il Manifesto, tra appelli e
sceneggiate da prima pagina, sono decenni che campa (a spese altrui) sull'agonia. Le
colpe sono sempre degli altri, cioè, nell'ordine: di Berlusconi
(prima perché c'era, adesso perché non è più quello di prima),
del capitalismo, della sinistra degli altri, delle faide in famiglia,
dei lettori che non capiscono. Mai nessuno che si guardi anche un po'
in casa. L'Unità, per dire, era in caduta libera da anni,
dall'exploit delle figurine Panini di Veltroni, cosa che avrebbe pur
dovuto far suonare qualche campanello d'allarme. Ma il quotidiano
fondato da Gramsci contava sul sempiterno appoggio del partito, di
quella Casta che fa fine denunciare, specie quella degli altri, e non
si preoccupava di un giornale sempre più malgestito, sciatto,
noioso, che pretendeva di stare al passo coi tempi mescolando Gramsci
e Renzi, il moralismo pauperista di Berlinguer con la nomenklatura da
sinistra da bere, imbarcando direttori come Concita de Gregorio a due
o tre milioni d'euro l'anno, lasciando la pagina culturale, che è
sempre la più importante o almeno sintomatica di una testata, a
sottoprodotti come i wu ming o altri imbarazzanti rottami del
novantunismo, il settantasettismo, il sessantottismo. La pagina
culturale dell'Unità era incredibile, illeggibile e il resto della
testata non molto migliore; ma un giornale produce notizie e le
notizie, stante la concorrenza, sono anche merce: non solo, ma anche,
sì. Per i giornali ideologici e dalla libertà vigilata come
l'Unità, la legge non deve valere: loro sono gli unici a dire la
verità, gli unici con dignità di giornalismo sciolto, libero,
autonomo anche se dipendenti in toto da un partito, che, vedi caso,
del suo organo ufficiale non vuole più saperne. Allora l'ex organo
che fa? Non prova a camminare con le sue gambe, no, accusa il partito
di non volerlo più mantenere. Fedele alla famosa autocritica
d'antan: dove avete sbagliato, compagni? E la gente, ipnotizzata dal
luogo comune che vuole un funerale della democrazia ad ogni
sparizione di giornale, lacrima, solidarizza (con le dovute
eccezioni), ma è la stessa che l'Unità non lo sfogliava neanche per
sbaglio. Forse perché diversa dagli esaltati che oggi lasciano sul
sito commenti di teatrale banalità come “Piango per l'Unità da
giornalista, da donna, da lesbica...”, oppure chiama a raccolta le
menti migliori della sua generazione con un appello tratto
dall'Ordine Nuovo (1919): “Istruitevi, perché avremo bisogno di
tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di
tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di
tutta la nostra forza.”. E allora, popolo, sotto con le
giaculatorie sulla democrazia finita, sul regime conclamato, sulla
dittatura incombente perché la gente non legge l'Unità.
articolo perfetto.
RispondiEliminaVp
ti segnalo l'opinione di un ex collaboratore di Modena. Molto interessante http://www.notemodenesi.it/2014/ci-ho-lavorato-anchio-a-lunita/
RispondiEliminaDalle risposte di una cafona lì sotto, si capisce che questi genii non capivano niente prima e non capiranno niente dopo. TIpico vizio comunista, quello di pretendersi mantenuti dallo Stato.
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