Un mondo a forma di
giardino, un giardino che era tutto il mondo. Un quadrato di cemento
dove crescevamo, protetti nel nostro piccolo mondo fuori dal mondo.
Era stata buona l'intuizione del padre del mio amico Lucio, un
geometra alto e grifagno che i figli chiamavano “il falco”, tre
palazzi, tre “lotti” collegati da un vialetto che separava
collinette erbose piene di lampade, vegetazione e gatti e al centro
quel fazzoletto definito dalle siepi e da un muro che in estate
diventava una poesia di Montale, dove le madri potevano controllare,
dove imparavamo l'amicizia e l'infatuazione, dove a sera il portinaio
Alfredo veniva a battere le mani: a casa, ci vediamo domani. Il
Lucio, con fare padronale, faceva disperare l'Alfredo, gli scaricava
sul bancone certi mazzi di chiavi da sei chili ed era, diciamolo
pure, strafottente. Aveva un fratello più grande, il Giulio, coi
capelli sul collo, che non si vedeva mai, anche Lucio scendeva poco e
così andavo io da lui, nel sancta sanctorum, aveva una magnifica
casa a due piani il Lucio, uno solo per i due fratelli, le pareti
rivestite di sughero, un lusso che non ti dico. Tracotanti lo erano,
così che quando strinsi amicizia col primo esterno al fazzoletto,
Tony, passavamo il tempo, a spiarli, sul pianerottolo ad ascoltare
demenzialmente fuori dalla porta (blindata) per poi rievocare ogni
espressione, ogni tic, ogni dinamica familiare trapelata dai
Cacciolo. Praticamente una sitcom. Lucio, che era ciccio, lo
torturavamo senza pietà e ho aspettato trent'anni a chiedergli
scusa, una notte di novembre che ero risalito a Milano. Lui mi ha
guardato con un sorriso pieno di tristezza: “Non eravamo mica
cattivi, eh Massimo”. No, non lo eravamo e abbiamo lasciato il
meglio della vita nel fazzoletto di cemento, ho condotto un rapido
sondaggio, recuperando quei lontani bambini: quando è stato il tuo
periodo più bello? “Il cortile”.
Qui scesi un giorno di
primavera del Sessantanove, appena arrivato, senza conoscere nessuno.
Ai piedi del muro sfilavano processioni di formiche che io sterminavo.
Vennero giù due o tre ragazzine della mia età e senza parlare, un
incubo, mi coprirono di schiaffi, tornavo su con le guance infiammate
per il dolore e la mortificazione, non dicevo niente ma mia madre
capiva. Dopo io m'innamoravo di una di loro, Roberta, che aveva una
manciata di mesi più di me, se lei era in cortile me ne stavo in sua
contemplazione, altrimenti mettevo una sedia sul balcone e aspettavo,
come un cucciolo, fino a che la tenda si muoveva e lei appariva! Di
fronte avevo la casa di Cesare, ossuto e scompigliato come un
personaggio cubista, mi faceva tenerezza e un giorno provai a
dirglielo, ma non fui capito. Cesare aveva un padre che pareva
Charles Bronson ma invece di ammazzare i cattivi vendeva scarpe nel
negozio che dal retro, confinava col cortile e, ogni dopopranzo alle
due, saliva sulla 500 rossa e andava a giocare alla Bocciofila
Caccialanza. Sua sorella aveva la mia età precisa, concupita senza
fortuna da Eros che stava in via Pordenone, disegnava benissimo, era
sentimentale e milanista quanto me e pesava poco più di Cesare. Poi
Eliana è diventata una della televisione, faceva il casting del
Grande Fratello, per Carlo Conti, programmi così. Cesare aveva due
anni più di me e nel fazzoletto di cemento innaffiammo la nostra
amicizia, che più o meno dura ancora adesso, anche se lui s'è messo
a dare i numeri prima come dipietrino e poi come grillino. A Cesare
piacciono Cocciante, Baglioni e i gatti, a me Cassius Clay, che in
Africa ha appena battuto un bestione invincibile, e i gatti mi
preoccupano. Anche certe copertine di dischi mi spaventano, specie
quelle di uno che ha un nome italiano anche se è americano e ha un
gran naso e due baffoni spioventi e un pizzetto. Poi anche
quell'altra col dipinto di cinque drogati quasi morti che scendono da
una scala regale e intorno vestiti come antichi greci o romani tutti
gli rendono omaggio, gli portano fiori, anche i bambini, ma come si
fa a concepire una roba così, dicono che il tempo non aspetta
nessuno e a me non piace, il mio tempo deve ancora incominciare, ma
cosa vogliono questi da me, giuro che non li ascolterò mai e poi
mai. Cesare colleziona i giornalini di Diabolik e finisce per
contagiarmi, una volta cresciuti andremo assieme alla bancarella di
piazza Durante a cercare numeri vecchi e una sera io mi dimentico là
la bicicletta. Quando torno a prenderla, il giorno dopo, incredibile:
c'è ancora. Mi attaccherà pure la mania dei “bottiglini”, i
mignon dei liquori, passiamo inverni interi sotto l'acqua, niente
ombrello, a battere i bar e gli spacci a cercare rarità che poi non
possiamo permetterci e le lasciamo lì. A casa dell'uno e dell'altro,
a perdere pomeriggi col Subbuteo (rendimento scolastico d'improvviso
a picco), a litigarci per il Milan e l'Inter, ad avventurarci nei
sogni: era impossibile non innamorarsi nel fazzoletto, una dozzina
tra ragazzini e fanciulle sempre insieme, tutti protagonisti e
nessuno comparsa, ogni pomeriggio fino a che il gelo non ci avrebbe
separato (curiosamente non ricordo un solo giorno d'inverno, senza
fazzoletto, mentre porto con me ogni momento speso lì dentro).
Cesare era bravo ad
inventare giochi, filastrocche, recite, come ogni borderline era
bravo in questo. E con lui non mi annoiavo mai, inseparabili come lo
si è a dieci anni, a dodici anni. Di fianco gli abitava Simona, che
era chiusa, ce l'avevo in classe e parlava niente, respingeva tutti,
a volte si nascondeva sotto al banco, a casa invece si apriva, le
nostre madri erano grandi amiche e potevo immaginarne i discorsi
fatui. Una telenovela ante televisionem. Simona aveva una sorella
della precisa età di mio fratello, si chiamava anche come lui,
Paoletta, così era divertente immaginare la doppia coppia. Io invece
ero puntato da Monica, pure lei un po' più grande, che voleva
“insegnarmi a ballare” al suono del mangiadischi, ma ballare su
Ramaya non era mica facile. Piacevo anche a Marina, che stava al
quarto piano e veniva giù a vegliarmi se avevo la febbre. Ma io ero
cascato negli occhi di Carla, sorella della mia primissima fiamma.
“Carluccia” e Roberta erano le figlie del chirurgo Stafforini,
avevano un fratello, Enrico, ed erano tutti e tre belli da metter
soggezione, le femmine erano come svedesi ed io cascai negli occhi di
cielo di Carluccia che all'inizio mi stava antipatica, anche perché
correva più svelta di me, ma poi, pomeriggio dopo pomeriggio,
qualcosa sbocciò ed è ancora lì, da qualche parte.
È vero che il primo
amore non ha rivali, è tutta sorpresa, marea che ti avvolge, si
ritira, travolge ed io non dimentico un solo momento. Mai il coraggio
di dichiararmi, tanto lei sapeva tutto e mi copriva d'una pioggia di
bacetti sulle guance. Il mio angioletto biondo. Ed io mi sentivo
grande. Ecco, potrei dire che per un paio d'anni, senza nessun
approccio, senza le precocità che oggi vanno di moda, noi fummo una
coppia, da tutti riconosciuta, senza discussioni, senza bisogno di
dircelo, senza tradimenti, e crescemmo nel sole. A lei ho dedicato
pagine, poesie, perché quella beatitudine di ogni giorno non può
andarsene, specie quando cresce come un albero in mezzo agli alberi:
quel fazzoletto era un giardino di piante nuove che salivano con le
radici ben salde nel cemento. Ma un giorno, un giorno inevitabile, si
dispersero. Loro, le fanciulle belle e bionde e prestigiose andavano
via, a Milano 2, la finta città con cui Berlusconi seduceva la
borghesia che non aveva alcuna voglia di andarci ma fingeva di
credere alla favola del quartiere danese con le villette, i vialetti
e niente traffico né delinquenza. Quale delinquenza? Fuori, oltre il
cancello c'erano le Brigate Rosse, c'era la mala, c'era pure
Vallanzasca, ma mai bambini crebbero più felici e sicuri che in quel
fazzoletto, dal quale adesso evadevamo alla conquista di un quartiere
difficile ed eccitante. Le partitelle ai giardini di piazza Gobetti,
le panchine come porte, ma bisognava tirar dentro i teppisti che
dettavano legge, altrimenti erano guai, anche se ci avrebbero
ugualmente rapinati, ma così, con un minimo di riguardo, non fare il
pirla che è meglio per te. E noi a pensare, ma prima o poi dovrai
pur crepare d'overdose. Eravamo cambiati, figli dei lampioni, delle
strade d'inverno che ci portavano sempre più lontano, dei primi
motorini, delle escursioni a Milano 2, del bar delle puttane della
pensione Cremona che s'appassionavano ai nostri tornei di flipper da
sfaccendati. Un ginnasiale campione di flipper! Che vergogna! Ma io,
bambino cresciuto nel fiore di cemento, imparavo a conoscere un po'
il mondo e quelle materne puttane erano amiche ormai. Dal cortile
eravamo tracimati integrando nuovi amici, il più amico di tutti era
Tony, di cui ho detto e col quale ogni tanto a tradimento mi trovo,
partiamo verso mezzanotte, destinazione sconosciuta, di solito verso
la Svizzera, quindi due o tre giri completi di Milano notturna e poi,
a giorno fatto, lui mi scarica in Centrale, sul treno, dove crollo.
Ma, come un vecchio pugile sfasciato ha bisogno di ritornare alla
palestra, io non posso stare troppo senza ritrovarmi davanti a quel
portone, a sbirciare oltre la guardiola, con la portinaia che c'è
adesso a guardarmi sospettosa, per vedere se scorgo spigoli di
cortile.
Carla non la vedevo più,
anche se il padre aveva ancora lo studio lì, nella casa grandiosa
dov'erano cresciuti. E poi un giorno la incontrai, combinammo di
uscire ancora, un pomeriggio, talmente in gran segreto che subito i
nostri genitori lo vennero a sapere. Imbranati uno più dell'altra,
perché ci eravamo rimasti dentro. Ma irrimediabilmente diciottenni
ormai, lei con un braccialetto prezioso che scintillava troppo, io
intuii ed ebbi conferma: regalo del fidanzato. Un pomeriggio di
delizioso strazio che chiudemmo sotto la metro promettendo di
rivederci, ma io sapevo che era l'ultima bugia. In effetti ogni tanto
la rivedo, quando torno a Milano e torno davanti a quella targa, al 4
di via Carpi, perché lei abita ancora lì, sposata, madre, chissà
se dalla finestra ogni tanto butta ancora uno sguardo al fazzoletto.
Chissà se racconta a sua figlia. Chissà se sua figlia ha voglia di
ascoltare. Due volte l'ho rivista Carluccia ma non l'ho chiamata, per
dirle cosa, poi? Che ho scritto tanto di lei? Che nei reading leggo
poesie su temporali di noi, che ero sempre sul punto di dichiararmi
ma poi esitavo, lei m'incalzava ed io zitto, un tormento che lei
scioglieva con una risata bionda e la pioggia di baci sulle guance,
tanto aveva capito, a che serviva parlare? Io adesso ho un sogno, un
ultimo sogno, un reading lì, nel fazzoletto di cemento e tutti i
lontani bambini lì, seduti sul gradino ad ascoltarmi, coi loro
figli, con chi vogliono ma questa sera è per noi, per favore
qualcuno porti un mangiadischi. E se il fantasma dell'Alfredo si
presenta a battere le mani, non andate via. Fatelo accomodare, ma non
obbeditegli stavolta. Non siamo più bambini.
perchè non organizziamo un torneo di subbuteo, ho ancora le squadre e il campo di allora che hanno nulla a che vedere con quelle di oggi.....
RispondiEliminaHo le dita rattrappite, come quelle di Keith Richards
Eliminapezzo molto bello, felliniano, stile amarcord
RispondiEliminaho ricordi molto simili della mia infanzia e adolescenza
Davide, Milano