Figlio
mio non ti arrendere, diceva mamma Cutrì all'indirizzo del boss
liberato con azione da fumetto a Gallarate, un commando che assalta
la scorta in pieno Tribunale, un fratello dell'ergastolano che resta
sul terreno ma lui riesce a fuggire. Figlio mio non ti arrendere,
fallo per tuo fratello, dice mamma Cutrì, a suo modo mamma coraggio,
orgogliosa di quella famiglia da fumetto, tre fratelli tutti nel
crimine organizzato: Davide caduto nel blitz, Nino subito catturato
con l'accusa d'aver coperto la latitanza di Domenico. E dove stava
costui? In un tugurio a Inveruno, vicino a dove abitava, vicino a
quella madre che lo incitava a non consegnarsi, sepolto in un caos
sudicio, cartoni a fare da giaciglio, neanche i barboni di Simenon,
che dormono sotto i ponti della Senna, sono ridotti come lui. I
carabinieri lo vanno a prendere a colpo sicuro, con Domenico anche il
luogotenente Luca Greco, l'ultimo del commando armato, che non oppone
resistenza. E già avevano fermato la cognata di Cutrì, una donna in
fuga con un bambino di 5 anni. Figlio mio non ti arrendere, pensa a
tuo fratello, pensa che siete figli miei, pensa a tuo padre che ti ha
trasmesso il mestiere della ferocia. Che gente è questa che vive,
che muore contro ogni logica? Gente di una delle regioni più piccole
d'Europa e del mondo ma spietata e intraprendente come nessun'altra,
gente brutale, presociale ma capace di smobilitare 500 chili di
cocaina liquida dalla Malesia, un valore di mercato inestimabile, per
poi crepare davanti a un Tribunale o farsi prendere in una tana da
animali, tanto simile a quei rifugi in cui, fino a non molti anni fa,
loro stessi nascondevano i sequestrati anche per due, tre anni. Come
il giovane Cesare Casella, tenuto alla catena come un maiale nella
complicità di tutta la zona. Quando la madre per far qualcosa, per
smuovere le acque arriva alle Tane, località il cui nome non lascia
adito a equivoci, la insultano, le sputano addosso, le fanno
caroselli irridenti coi motorini. I ragazzini se vedevano che un
rapito si liberava subito lo prendevano e lo riportavano ai suoi
carcerieri. “Puttana, doveva pagare”, dicevano i ragazzini di San
Luca di mamma Casella, venuta da Pavia a vedere se il figlio era
ancora vivo dopo settecento giorni di prigionia. “Non è
bella la vita dei pastori in Aspromonte, d'inverno, quando i torbidi
torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I
pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono
con gli animali”, scriveva Corrado Alvaro nel 1930. Ma da allora la
gente di Aspromonte è cambiata, la sua durezza è cambiata, pochi
pastori, molti forestali assoldati dalla Regione, più che in tutta
la Lombardia e gli sgherri che se vedono un foresto inoltrarsi lo
fanno tornare indietro con le buone o con le cattive, ma bastano le
buone. Anche ai carabinieri che vivono come in Afghanistan e se
possono non si sognano di uscire dalla caserma. Che
gente è questa, feroce e delirante, “figlio mio non ti arrendere,
pensa a tuo fratello”? Gente che è difficile capire, come i
camorristi che vivono nel gran casino napoletano come gang del Far
West o della New York tardottocentesca, come i mafiosi prede dei loro
rituali e dei loro silenzi insanguinati, paranoici e caricaturali.
Totò Riina, un vecchio di 85 anni, venti dei quali passati in un
buco a scontare un isolamento senza fine, ha ancora voglia di
minacciare, di rievocare con accenti nostalgici quasi flaubertiani la
strage di Capaci, e di vantarsi con un boss della Sacra Corona
pugliese, “Ce ne vorrebbero mille di uomini come me”.
Figlio mio
non arrenderti, in questa guerra contro l'umanità tu sei un perseguitato, un innocente, il mio angelo
d'oro e d'argento. A Corigliano Calabro hanno ucciso un bambino di
tre anni per non si sa quale faida, quale vendetta, robe atroci e
demenziali che qui assumono una importanza folle. Il piccolo Cocò li
guardava coi suoi occhi stupiti, terrorizzati. Non si sono fermati
neanche davanti a quelli, solo polvere doveva restare e solo polvere
è rimasta. Lo hanno fatto fuori insieme a una coppia di balordi, lui
zio del piccolo, poi hanno trasformato l'automobile in un forno
crematorio. Lasciando una monetina da 50 centesimi, per dire che non
valevano niente, che era una cosa da niente. Dice la mamma di Cocò,
giustiziato a tre anni: non voglio più stare in Calabria, voglio
rifarmi una vita altrove. Il papa Francesco ha invitato gli assassini
a pentirsi, quanto a dire a ripensarci, a rendersi conto dell'orrore
commesso. Ma come ci si può pentire di qualcosa che va oltre la
logica e va oltre il peccato?
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