Non so come è successo, ma questo mestiere se n'è andato per la sua strada e non ho potuto riportarlo a casa. Mi sarei venduto per una redazione, una bella poltrona calda e invece lui mi ha scaraventato nelle corsie d'ospedale, gli obitori, i marciapiedi sporchi di morte, i tuguri dove ci si ammazza per niente, le aule di tribunale dove si giudica la vita che è finita. Tanti giorni sparati nel dolore, da raccontare sapendo di poterne trasmettere solo il pallore. Tanti testacoda. Poi, quando mi è toccato frenare, mi sono imprigionato nei miei arresti domiciliari ma lui, mestiere senza lavoro, mi è venuto a stanare come allora. Complici strumenti che prima non c'erano, m'ha portato in casa il dolore che prima andavo a cacciare. Io sono diventato raggiungibile. E mi hanno raggiunto in tanti, affidandomi enigmi. Ricatti. Miserie. Rendendo questo non un mestiere, non una missione, ma qualcosa che non saprei definire. Quello che so, è la collezione di occhi, di sguardi che sempre mi accompagnano, non ne perdo uno. A volte mi seguono. A volte tornano. Fino alla fine resterà con me lo sguardo di una fanciulla che non mancava mai alle mie occasioni, quei pretesti per sentirmi vivo. Si è uccisa prima di Natale, gettandosi sotto un treno.
Questi occhi tradiscono stanchezza, sofferenza, e una disperata voglia di sorridere. Non darla vinta alla vita. Sono sguardi di ragazze sole, di uomini superati, di gente sconfitta, che ha osato, ha sbagliato o semplicemente troppo buona. Troppo fragile per difendersi. Peggio ancora, incolpevole capro espiatorio, capriccio del caso cieco. In teatro io porto piccoli eroi passati per ingiustizie, traumi, prove inaudite: davanti ad altri occhi, le loro ferite si fanno spettacolo. Non nel senso che di solito si usa, quello della televisione, delle lacrime che fanno mostra di sé: sono, invece, spudorati cedimenti, eccessi di sincerità, fragilità senza alibi. Sono squarci di fiducia. È il dolore che non perde dignità, anzi la raggiunge mentre si confida. Si affida e si arrende. Che sia passato per aerei mai atterrati, per il coraggio della sconfitta, la persistenza dell'ingiustizia o l'eternità di un'attesa, cambiano poco le ammissioni: stanno nello sguardo pieno di cicatrici impercettibili, che punta lontano, in un nonluogo inaccessibile a chi ascolta. Stanno nell'ineffabilità che non si rassegna a se stessa. Enormi tragedie, piccoli drammi: non cambia l'incomunicabilità, perché il dolore è anzitutto solitudine, isolamento, eccesso di parole impotenti. Eppure, eccoci qua. Per oscuri binari, intercetto ancora quei percorsi, segmenti di sangue, aloni di lacrime, echi di urla antiche. Ne divengo tramite. Provo a tradurli o almeno a mettere i miei compagni di una sera nella condizione di spiegarli. Oggi come venticinque anni fa. Più di allora anzi. Questo è quello che faccio, e non è un mestiere e non è una missione, è soltanto un mistero che ricomincia da capo, con altri sguardi, altri occhi. Non ho mai smesso di aggirarmi nei meandri della vita, non l'ho mai tradita per le ribalte che la ingannano: non ne ho avuto occasione, non ero fatto per quelle tentazioni. Entro bussando nelle stanze del dolore, mi metto in un angolo, con estremo rispetto mi ci accaso. Poi i padroni di quelle stanze vanno via, se le portano appresso ed io mi sento ancora un po' più stanco, più infelice e orgoglioso, più ricco di di solitudine. Più invaso da qualcosa che non è un mestiere ma fa un male cane e ogni tanto consola, ogni tanto non so come guarirlo.
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