Ma io non morirò qui.
Non è neanche una questione di cose che non vanno, di epidemia di
cialtroni, di Stato mafioso e ladro, di non sentirsi mai al sicuro
anzi vessati proprio dalle istituzioni, di avere una magistratura da
incubo e una politica da avanspettacolo, servizi da quarto mondo e
informazione da Tabarin. O forse sono tutte queste ed altre mille
cose insieme, che, insieme, sostanziano macerie d'identità. Sta di
fatto che, se un accidente non mi uccide prima, io me ne andrò da
questo posto senza più Paese, senza nazione e senza bandiera, senza
un comune sentire, un retaggio, una tradizione. Io non resterò a
bruciare altra forza invano, a sprecare pensieri, e amore, e
speranza. Non starò a coltivare oltre la mia disperazione. Meglio
un'isola, una spiaggia, un orizzonte dove c'è luce e la follia non
regna. Dove l'ingiustizia non è legge e la frustrazione non è
l'aria che respiro. Dove non odio chi incontro e non temo le ombre.
Mi guardo intorno e scopro che dell'Italia in cui sono nato,
cresciuto, non è rimasto niente. Neppure il ricordo, i fantasmi, la
nostalgia. È un nonluogo terribilmente cupo, triste, rassegnato, che
affonda, affonda e tutti dicono, cosa ci vuoi fare?, affondiamo, va
così. Ma io non voglio inabissarmi. Ancora pochi anni, qualche
calendario e poi via, per sempre, senza ritorno. Io, se non crepo
prima, non lascerò nessuno qui. Neppure i rimpianti. Del resto, vivo
già come uno spiantato, uno sradicato che s'affaccia alla finestra
di un computer e scopre tutto quello che c'è da sapere e vorrebbe
non sapere. E questo lo posso fare da dovunque. Lunario dopo lunario,
mi sono sentito morire come cittadino, come italiano e ora di quella
sensibilità non difendo più nemmeno le ceneri. Fino a poco tempo
fa, anche solo il vedere un tram arancio mi riportava madeleines
municipali, vecchie mattine che per mano a mia madre m'infilavo
tremante in un “presidio” dove mi vaccinavano, mi controllavano o
chissà che altro. Il presidio, il tram, mia madre stessa, erano il
mio Comune, la mia città, il mio Paese. Le strade che calpestavo lo
erano. Le mattine col sole in cielo lo erano. Le piazze erano
momenti. Le stagioni, eventi. Adesso tutto è morto e non è solo una
questione di età, quella lontananza del tempo, è proprio che
intorno a me non sopravvive margine d'atmosfera: io non potrei
spiegare ad alunni delle scuole cosa voleva dire crescere da
italiano. Non diamo la colpa agli intrufolati, per favore: i loro
negozi, è vero, fanno schifo, ma un'Italia avrebbe saputo
naturalizzarli, prendere il loro sangue disperato e giovane e
alimentarsi, perché questo fanno le nazioni. Inglobano,
centrifugano, rinascono. Questo nonluogo, invece, risputa via e
basta. Vomita e piange; non piange, è una colossale pianta morta,
qualcosa d'inaridito e inutile. Tutto è così anonimo,
spersonalizzato dal nord al sud di una rinuncia a resistere, a
esistere, a risorgere. Mi fanno ridere i politici infami che
ipotizzano (da quanto? Da 30 anni? Da 50?) improbabili riprese, tutti
sappiamo che non riprenderà più il Paese che non c'è, che s'è
sconfitto, cancellato, che muore nei suoi suicidi, negli impiccati,
in chi impazzisce e annienta. Oltre l'ultimo peggioramento c'è il
buio. Forse il Paese arreso verrà preso, ma è tutt'altra avventura.
Preso, rivoltato, stravolto e reso qualcosa di incomprensibile, come
una colonia, una dépendance geografica, un ricovero o una discarica.
Noi come italiani siamo morti, morto è l'italiano ch'era in noi, nel
quale siamo cresciuti. Niente gli sopravvive, non il gusto, il
vestire, i rituali borghesi, quella sorta
d'indefinibile genius loci fatto di calore e cialtronaggine,
perennità contadina e consapevolezza d'essere unici, nel male ma
anche nei pregi. I giovani non sospettano
più niente di tutto questo, i loro cromosomi hanno smarrito tutto,
non abbiamo saputo trasmetter loro altro che che una cupa fame atavica, presociale, burina che puntualmente rispunta agli
autogrill. Andiamo come forsennati – dovrei dire vanno, io non mi
muovo – in ogni angolo di mondo purché fuor dai confini, forse a
cercare cosa abbiamo scordato, l'Italia da cartolina e da farsa che
viene rappresentata ma non esiste più, è un vecchio disco di vinile
rotto. Ogni anno altra memoria si perde, ed è diventato difficile
parlarne, rispolverare sensazioni, situazioni completamente disperse
intorno a noi e sempre più dentro noi. Il risultato è una colossale
amnesia. Morti gli ultimi vecchissimi, questo posto, questo nonluogo
non avrà più nulla cui aggrapparsi, nessuno specchio pieno di
rughe. E non ricomincerà da capo, la sua tabula rasa verrà usata
come fondamento di un mondo nuovo, diverso, irriconoscibile e
irriconoscente, immemore e estraneo, ma io non ci sarò.
Cioè, vuoi emigrare?
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