Questa sera, al Teatro Leopardi di San Ginesio (MC), si parla di doping, ricordando chi per primo lo denunciò, in maledetta solitudine e oscurato da tutti: Carlo Petrini, ex campione dal carattere ribelle, zingaro del pallone e poi suo implacabile accusatore, è morto da venti mesi, e la sua voce non smette di chiamare: diceva la verità. Ospiti in teatro saranno Adriana, che ha regalato al suo Carlo, devastato da troppe malattie, dieci anni di vita contro ogni legge medica, e Sandro Donati, allenatore, docente, scienziato, coscienza critica, voce alta anche lui contro questa piaga normalizzata, somministrata già ai ragazzini nella generale connivenza perfino dei genitori. Propongo di seguito una intervista ad Adriana Petrini, uscita solo sul Faro, sorta di introduzione al nostro incontro di questa sera. Al quale, è chiaro, vi aspettiamo.
“E' solo un altro buon
viaggio a un altro buon amico”. La bandiera Stefano Borgonovo s'è
ammainata anche lei, da tempo non sventolava più, ridotta a uno
straccio in un imbuto. Un altro archivio mesto per un campione del
passato, un'altra partita con il lutto al braccio per i calciatori di
oggi. La sua condanna si chiama morbo di Lou Gherig, conosciuta
meglio come Sla, terribile acronimo per sclerosi laterale
amiotrofica, che attacca i centri nervosi, che riduce una larva. E ci
sarà pure una ragione se chi prende a calci un pallone per mestiere
rischia, secondo uno studio recente condotto alle Molinette di
Torino, 12 volte più degli altri di ammalarsi. Si ipotizzano le
pallonate in testa, si ipotizzano i pesticidi sul campo, e questa
pare davvero tirata per i capelli. L'ombra più lunga e pesante è
quella che tutti rifiutano, che non è ancora eziologicamente
provata, ma che nessuno può smentire. Carlo Petrini sul doping nel
calcio ha costruito la sua seconda vita, dopo che la prima gli era
stata distrutta da brutte storie di calcioscandalo e, ma questo lo
scoprirà poi, da farmaci killer. Quella sua seconda vita è stata
una morte progressiva, libro dopo libro, denuncia dopo denuncia. S'è
arreso il 16 aprile del 2012, Petrini, mentre il calciatore del
Livorno Piermario Morosini veniva schiantato da attacco cardiaco.
Domani Carlo verrà commemorato nel suo paese natio, Monticiano, in
una giornata speciale tra spettacolo e testimonianza (pochissimi i
colleghi), che la moglie Adriana ha voluto con tutta se stessa, e che
diventerà ogni anno l'occasione per ricordarsi di Carlo. E per
aggiornare, tristemente, la contabilità degli scomparsi. La vedova
Petrini, Adriana, non se lo nasconde.
R - Certamente anche
Stefano Borgonovo verrà ricordato domani. Insieme a tutti gli altri.
Ed è orribile che una occasione di festa, alla fine, debba
tramutarsi in un altro cordoglio fresco.
D – Poco tempo fa è
crollato anche Ferruccio Mazzola...
R – E anche lui aveva
denunciato il doping, che prendevano sotto Herrera. Purtroppo,
constatiamo che la voce di Carlo non smette di parlare, di avere
ragione, soprattutto ora che lui non c'è più.
D – Perché Carlo si
era ostinato a denunciare il doping? Cosa gliene veniva, in fondo?
R – Diceva sempre: “Lo
faccio per i ragazzi, io non ho più niente da perdere. E ho visto
ragazzi ringraziarlo.
D – Come riusciva a
vincere la loro distrazione, anche il loro cinismo superficiale di
adolescenti?
R – Entrava; per prima
cosa mostrava il buco in testa, profondo come una voragine. Parlava,
col suo vocione profondo. I ragazzi a volte scappavano. Poi
tornavano, in lacrime.
D – Lui parlava, ma
spesso il suo vocione profondo cadeva nel silenzio...
R – E' stato preso per
pazzo, ma soprattutto ignorato. Qualcuno gli diceva: “Proprio
perché sai, non devi parlare”. Lui s'arrabbiava moltissimo: “Eh
no, cazzo, è finita! Quanti altri morti ancora?”.
D – Già, quanti altri?
R – Dicono: il calcio
non c'entra, “forse”. Ma anche col cancro al polmone il fumo non
c'entra “forse”: però intanto si fa prevenzione, si studia. Qui
invece il problema continua a venire ignorato.
D – Carlo non è morto
di Sla, peraltro...
R – Tre tumori. E un
glaucoma, devastante, per del cortisone da non assumere. È stato
infiltrato dappertutto, per tutta la carriera. Perché? Che bisogno
c'è, con fisici sani come quelli degli atleti?
D – E comunque perché
non parlarne?
R – E' questo! Perché
non parlarne? A chi fa comodo? C'entra o non c'entra il doping, sul
quale, almeno questo, nessuno può avere dubbi, data una casistica
oramai mondiale e sconfinata?
D – Quanto è durata la
battaglia di Carlo contro il suo corpo?
R – Dieci anni: ci
eravamo appena sposati, e già cominciava a tradire i primi sintomi.
Cominciò subito a scrivere, a denunciare. E a curarsi. Mai un
lamento, mai un rimpianto.
D – Non aveva rimorsi
Carlo per la sua vita di prima?
R – Non era un pentito,
in nessun senso. “Troppo facile, troppo comodo”, diceva. Aveva un
profondo dolore per il figlio perduto a 18 anni, Diego, al cui
funerale non potè andare.
D – Come viveva la sua
malattia, allora?
R – Diceva di essere
fidanzato con la morte, ma che non aveva alcuna fretta di essere suo.
Combatteva, perché anche devastato voleva vivere. E viveva. Ed
eravamo felici.
D – Felici e
arrabbiati...
R – Arrabbiato Carlo
sì, di sicuro. Più che altro, disperato: “Ma non capiscono, i
calciatori di oggi, che si distruggono peggio di noi? E non ci
pensano ai ragazzini?”, diceva.
D – Chi legge i suoi
libri trova un sarcasmo feroce, ma anche sprazzi di umorismo
sorprendenti. Come poteva accadere?
R – Perché quello era
lui. E, posso giurarlo, era cieco per il glaucoma, i suoi occhi erano
i miei, ma nessuno se n'è mai accorto. Solo un mese prima di
andarsene, mi ha detto: “Adesso sono stanco”.
D – Stanco di cosa?
Della malattia o di vivere?
R – Di vivere mai! Di
combattere neppure. Stanco di 10 anni di terapie, certo. Ma
soprattutto del silenzio. Fu l'unico a dire brutalmente che era tutta
colpa del doping, per lui e per i colleghi.
D – Ma questi colleghi,
perché non gli davano man forte? Cosa avevano più da perdere?
R – Le illusioni. E
certi interessi ci sono sempre. Carlo di sè diceva: “Io sono solo
un malato di serie B”. Ma continuava a scrivere, l'ultimo libro è
di pochi mesi prima di morire.
D – E non c'era solo il
doping, vero?
R – Quello era un
impegno. L'altro, una autentica ossessione, era la morte di Donato
Bergamini, il calciatore suicidato, come lo chiamò lui nel suo
libro.
D – E per il quale la
Procura di Castrovillari ha appena riaperto il fascicolo, con un
avviso di garanzia spedito alla ex fidanzata Isabella Internò, unica
testimone oculare dell'incidente.
R – Quando entrava in
una scuola, Carlo diceva: “Dopo vi parlo del doping, ma prima devo
raccontarvi di un collega ucciso”. Non accettava quell'oblio, così
come quello sul doping.
D - Lui credeva alla possibilità di fare ancora luce su questo
delitto?
Lui non ha mai smesso di crederlo. Alla famiglia ripeteva sempre:
“Fate riaprire il caso, fate in modo che si riapra, perchè è
tutto lì, le versioni ufficiali non possono reggere: c'è
l'autopsia, c'è tutto...”
R - L'autopsia...
Quella di un uomo che resta integro dopo che sarebbe stato travolto
da un autotreno. Ancora con le scarpe, i calzini. L'orologio al
polso. Il corpo coperto di quintali di mandarini...
D – Era difficile vivere con un uomo così fragile, duro, malato e
ostinato?
R – Era un dono. Forse un destino: io stessa sono figlia di un
calciatore, Giovanni Clocchiatti, negli anni 40 anche col Milan. Morì
di leucemia precoce, come Andrea Fortunato...
D – Cosa?
R – Dicevano che aveva “un fisico da cavallo”. Un colosso. Con
un tallone d'Achille: il menisco. Subì radiazioni, infiltrazioni:
gli diedero una settimana di vita, tirò avanti due anni.
D – E poi arriva Carlo.
R – E poi arriva Carlo e tutto si ripete e per me, che non avevo
mai superato il trauma, fu un trauma formidabile, un trauma d'amore.
D – Come se n'è andato Carlo?
F – Non certo a Monticiano e men che meno povero e solo, come ha
scritto qualcuno che pure era venuto a trovarlo. Ma qui a Lucca, dove
tutti lo amavano. Qui, nelle mie mani. E felice. Felice!
D - “Qui sono rinato, qui muoio”, confidò una volta a chi
scrive. “Ma muoio felice, con un angelo che mi ha raccolto”,
aggiunse.
R - Nove anni insieme sono stati pochi. Pieni di tutto, ma pochi. Lo
penso sempre: è durato un attimo. Bisognerebbe vivere due volte. Ma
non si può.
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