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LA TENEREZZA DEL LUPO


Tutta la rabbia è andata via dai solchi della vita. Adesso, quando sorride da quelle fontane di passato esce malinconia dolce, la tenerezza di chi troppe ne ha viste, troppe ne ha fatte ricordare. Keith Richards ti guarda dalla vertigine dei suoi settant'anni e pare dirti: prenditi quello che rimane. Non è più lo stesso, non potrebbe dopo aver tutto quel troppo di tutto. Il suo corpo è parso esplodere senza preavviso. La sua mente è tenuta insieme da sette placche di titanio dopo la caduta da una palma che gli ha spappolato il cervello. Ma, tre mesi dopo che il dottore gli aprì il cranio “e tutti i pensieri volarono via come farfalle”, era già lì, appeso a una chitarra, davanti allo stadio di San Siro pieno di umani che gli succhiavano l'energia e la vita. Le dita sono un Getsemani di ulivi contorti, piegate dall'artrite reumatoide. Eppure suona. Perché non può far altro, perché non sa fare altro. Suonerà fino a un attimo dopo essere morto. (vedi anche Keith Richards, una vita al massimo)
Tutta la furia è andata. Resta l'esperienza di qualcosa di irripetibile, sovrumano e folle. Resta un passato che non passa, che Keith non si cura di negare, lui che non si è mai preccupato di negare un solo momento di un presente spaventoso. Potevano carcerarlo, ricoverarlo, bandirlo da mezzo mondo, ma non si è mai compianto, non ci ha mai piagnucolato sopra, soldato di una guerra assurda, combattuta da solo contro il mondo nel nome del rock and roll. Resta il mito. Una rockstar, quando è davvero tale, ha pochi competitori nella fama globale, solo i divi del cinema e gli assi dello sport possono insidiarla. I Rolling Stones sono andati oltre, Keith in particolare ha allacciato, all'incredibile età di 60 anni, entrambe le orbite: “Venne sul set dei Pirati dei Caraibi – ha ricordato Johnny Depp – e di colpo niente era più reale: tutti fermi, lì per lui, spuntava gente che non vedevo da anni”. Lui si è comportato come sempre: strafatto, irritabile, le prime prove un disastro poi d'improvviso la magia: e il regista, che voleva suicidarsi, rimase appeso anche lui all'inspiegabile, cogliendo in un attimo la pazzesca alchimia dei Rolling Stones.
Una rockstar arriva al punto da smaterializzarsi, è il mito di se stessa a vivere: gli uomini che lo incarnano semplicemente si guardano suonare, dormire, esistere; per Richards e Jagger, che sancirono il loro patto fra diavoli alla stazione ferroviaria di Dartford, dove hanno appena messo una targa in memoriam, la dimensione è ancora oltre: loro sono gli unici due ancora in carica di un'epoca, amministrano la sublime mostruosità dei Rolling Stones e se ne fregano se la morte li aspetta. Quei due bambini, e poi adolescenti, che volevano suonare il blues dei neri, sono oggi due settantenni oltre la quintessenza delle rockstar, vivono davvero in un'aura nietzschiana, al di là del bene e del male per dire in un limbo spaventoso e tutto sommato atroce, un deserto di sovrumanità che prevede altri valori, altre priorità. E lui lo sa. “Keith, che definizione daresti del rock?”. “Me”. Condizione allucinante e pericolosa, che Keith indossa fino in fondo, facendosi il lifting alla rovescia, e risolve tornando appena può alla radici, del vivere e del suonare. Ha inventato un genere, nessuno suona come Keith, che non sa suonare ma nessuno riesce ad imitarlo. Neppure adesso, che si è dovuto inventare un modo di cesellare le canzoni, là dove prima le accoltellava, le morsicava, le teneva in piedi a scudisciate d'accordi. Un ladro generoso: ha reso, moltiplicato, quel che ha rubato, e se Ry Cooder lo accusa, "Mi ha scippato tutti gli accordi che conosce", non si scompone: "Lui, da chi li ha presi?". E' il blues, ancora, e ancora.
Keith Richards, insieme a Jagger, ha saputo vivere “oltre”, al di là di ogni bene e ogni male, risputando addosso al mondo i suoi valori ordinari, borghesi, perbenisti, con violenza e depravazione inaudita e allo stesso tempo abbracciandone i feticci edonistici e mercantili con una spregiudicatezza imparagonabile. Nessuno ha mai potuto competere coi loro vertici e i loro abissi. Hanno umiliato i Guns and Roses quando quelli erano all'apice (e non se ne sarebbero più ripresi), hanno snobbato i Metallica, hanno saputo travolgere come una risacca maligna il punk e Jagger pagava persino gli avvocati ai Sex Pistols, proibendo a chiunque di divulgare quell'empito di curiosa umanità. Hanno seminato dietro sé cimiteri di uomini e di artisti.
Quanto a Keith, è impossibile racchiudere la parabola delle sue nefandezze. Basti dire che, quando si lasciò scappare che aveva fiutato un po' di ceneri del padre, tutti gli credettero; quando fu indotto a smentirsi, non gli prestò fede nessuno.
È strano. Ma anche per questa strada lastricata di decessi, infamie, lussurie, si può arrivare a far felice il mondo. Che sarebbe un posto diverso, più vuoto, più tetro se non avesse avuto un Keith Richards a mettergli paura. A lungo. Perché Keith tra gli anni Sessanta e gli Ottanta era un po' diverso dal reduce di guerra che ti sorride adesso, malinconico e fiero. Era un'entità strana, passava come una salamandra (tramite Anita Pallenberg) fra le più sfrenate e debosciate tendenze culturali e artistiche, si favoleggiava avesse due fegati e perfino l'allora cardinale Ratzinger si mormorava ne fosse sconcertato. “Mi piaceva spararmi una pera di eroina e uscire a giocare a tennis con Jagger: lo battevo regolarmente”. Un modo contorto di spremere arte, ma ancora oggi non c'è praticamente serie televisiva che non attinga generosamente alle musiche dei Rolling Stones. Così drammatiche, così cinematografiche, così adatte ad infilzare l'aspetto più crudo della vita, il bello che c'è nello squallore, la sua disperata vitalità, la sua inguaribile, incorreggibile voglia di esistere. Keith non ha mai voluto morire davvero, fu la fame di vita a portarlo fin qui. 
Settanta “and counting”, e andare avanti. Sempre. Verso un altro tour fra l'Australia, l'Oceania, l'estremo Oriente (e figurarsi se mancherà l'Europa). Appena un anno fa, pareva che la Fenice Keith non fosse più in grado di reggere una chitarra a tracolla. Forse non sarà stato il migliore, ma nessuno è stato come lui.

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